Alla domanda “In che anno siamo?”, rivoltagli all’inizio della via Crucis nel girone di un istituto di sanità mentale, Frank, giovane cantante dissidente e in lotta contro un regime oppressivo, risponde con poca esitazione: “1984!”
Il ripensamento arriva poi, e con esso la consapevolezza di correre un po’ avanti col fuso orario, perché i fatti narrati in Eltörölni Frankot di Gábor Fabricius sono in realtà del 1983.
La risposta orwelliana, data a tutta prima in un evidente momento di confusione, però, resta nell’aria, pregna di importanti suggestioni. Anche perché il fantasma del grandissimo autore inglese de La fattoria degli animali, aveva volteggiato lungamente nelle prime inquadrature del film.
L’avevamo sentito sbatacchiare le catene nella scelta del vivido bianco e nero di matrice espressionista, quello stesso di inizio Novecento che aveva annodato insieme le preoccupazioni politiche della nuova fantascienza con i labirinti che trasformano uomini in scarafaggi di Kafka.
L’avevamo percepito nello strano clima belligerante che cammina per le strade con cingolati di carri armati, mentre sugli scorci aerei dei vicoli passano radenti formazioni di aerei.
L’avevamo inteso nella pervadente sensazione di censura che costringe i giovani a far musica contro il sistema, nascondendosi negli scantinati in cui presto irromperà la polizia.
Un clima da film di fantascienza, verrebbe da dire, di un futuro davvero prossimo venturo, se non fosse per quell’anno che, corretto da ’84 a ’83, ci dice che non è il domani immaginato da Orwell quello che abbiamo davanti, ma uno ieri concreto che ci è stato vicino, ma di cui ancora troppo poco sappiamo.
Ci vuole un po’ di tempo, quindi, per rendersi conto che la città che attraversiamo tra spire di nebbia, prendendo metropolitane che si intrufolano in tunnel da incubo è la Budapest di ieri: una città ancora chiusa dietro le spire di filo spinato della cortina di ferro.
Una città in cui gli abitanti sognano New York, la fuga, la possibilità di un futuro di vera libertà, mentre qui, in questo grigio onnipervasivo, l’umidità del totalitarismo è entrata nelle ossa.
Una fuga sarebbe alla portata anche di Frank che ha troppo talento, come cantante, per spegnersi nel silenzio.
Gliela prospettano diverse volte, arrivando a sventolargli davanti anche un passaporto che potrebbe portarlo lontano.
Lo stesso regime, rappresentato da un gerarca vecchio abbastanza da sapere che il sistema continuerà anche se lui muore (“ma non fate di me un martire!” arriverà a dire a un certo punto), lo sbolognerebbe all’estero senza troppi impicci, perché, se resta, potrebbe far danni visto l’ascendente che ha sui giovani e la troppa voglia di distruggere cose che si sente nella sua musica. O, forse, questa disponibilità sottobanco, tra i corridoi dei palazzi del potere attraversati da ascensori senza porte, è solo parte di una complessa forma di tortura in cui, alla Poe, la speranza serve solo a rendere più cocente il dolore della disillusione.
I dubbi si affastellano, man mano che la proiezione avanza verso il suo esito fatale e, mentre il montaggio del film (e la costruzione in blocchi concentrici della sceneggiatura) ci priva pian piano del principio di continuità spaziale, rendendo città e istituto labirinti continuamente attraversati senza speranza di uscita, ci ritroviamo a condividere, col protagonista, lo spaesamento di un individuo che il sistema cancella psichiatricamente per renderlo innocuo e manipolabile.
Una didascalia ci informa (qualora ce ne fosse ancora bisogna) che quella degli istituti psichiatrici usati per mettere a tacere gli elementi più dissidenti, era una strada spesso anche troppo praticata nei paesi oltrecortina.
Gábor Fabricius ha mano felice (grazie anche all’ottimo Benjamin Fuchs che dà a Frank la giusta dose di nervosismo e rabbia) nel gestire una materia narrativa che avrebbe potuto facilmente scivolare nell’esemplificazione e ci consegna agli annali davvero un ottimo film.