Rendez-Vous – Nuovo Cinema francese: Rose di Aurélie Saada

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Ogni famiglia felice è felice a suo modo, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Quando muore la figura paterna gli elementi rimasti senza – figli e moglie – perdono equilibrio, si ritrovano fuori posto, come divani spostati in giardino, pentolame sui ripiani della libreria e yogurt scaduto sotto al letto. Durante il lutto ebraico si pratica la shiva: una settimana in cui la casa è aperta, vi hanno accesso libero tutti i conoscenti, i parenti, gli amici del defunto e si mangia e si parla e si ricorda, mentre in una stanza il cadavere (il grande assente), coperto con un lenzuolo bianco, è adagiato su una stuoia sul pavimento (divertente la scena in cui i nipotini fanno l’imitazione del nonno, uno sdraiato e coperto per terra e l’altro accanto con un libro in mano salmodiando e ondeggiando il busto come nella preghiera ebraica).

Rose indugia in lunghe scene di pasti come se il ritrovarsi attorno a una tavola fosse l’unica occasione per comunicare, secondo una lunga tradizione di molte religioni, da quella cattolica a quella araba, a quella ebraica: attraverso il cibo si regala amore. Sarà per quello che quando Rose, distratta da altro, cucina delle polpette immangiabili per quanto piccanti, i figli ridono ma dentro di loro non capiscono cosa stia succedendo alla madre: perché invece di piangere il marito appena morto, Rose si sveglia, esce, si fa bella, balla, prova nuance di rossetti in profumeria, scopre nuovi interessi nella vita? Alla iniziale depressione dell’anziana rimasta vedova, tramite uscite con la figlia al bar sotto casa e a cena da suoi amici giovani (mondanità attorno a un tavolo: chiacchiere, interessi condivisi, bevute e brindisi, presenze ancora più anziane della donna ma assai più evolute e intraprendenti – una vecchietta intellettuale che abusa di vodka e marjiuana), si sostituisce un personaggio che si mette in gioco, che vede i problemi dei figli ma li lascia compiere i loro errori, ed eventualmente recuperare ad essi, da soli, senza il suo contributo.

Rose va a prendere un drink da sola, per noia o per eccesso di programmi televisivi scadenti: Laurent, il padrone del locale, è un uomo che potrebbe essere suo figlio eppure è pronto ad ascoltarla, a condividere il gusto del bere (le miscela del succo di frutto con l’alcol), a assorbire i suoi racconti di scontentezza e confidare la sua fino a un ballo su ritmi orientali che conducono i due in un risveglio dei sensi ardito, desiderato, difficilmente accettato dalla società giudicante.

Françoise Fabian

Rose perde il polso della famiglia – che va a rotoli: Léon, il figlio che vive con lei, viene condannato a tre mesi per truffa e lei si dimentica dell’udienza; Sophie, la figlia ancora invaghita dell’ex da cui è separata con cui ha una figlia, che riceve da lui la notizia che sta per diventare nuovamente padre e non lo racconta alla madre; Pierre, il maggiore, chirurgo ebreo praticante, che ha una trasgressiva avventura di una notte con una donna che conosce da sempre, mentre sua moglie e in viaggio coi bambini in Israele. Rose passa una giornata alla spa, lasciandosi accarezzare da mani sconosciute, levigare la pelle con creme e fragranze, frequenta il centro commerciale nella sezione profumeria incontrando una premurosa commessa che le urla nelle orecchie dando per scontata una sua ipotetica sordità dovuta all’età. Ribaltamenti di ruolo (il figlio fa una scenata di gelosia a Rose e la chiude dentro casa, la figlia dice alla madre che, a suo avviso, sta deragliando, e poi manda Pierre, considerato quello con la testa a posto, al bar per ammonire il padrone di tenere lontane le zampe dalla madre – senza avere poi il coraggio di farlo), delusioni maneggevoli, scorribande in macchina dopo trent’anni senza guidare una vettura, affrontare col sorriso il coraggio di uscire la sera da sola, rifiutando di sentirsi come la vecchietta che incontra nell’androne – tremebonda, incerta sulle gambe, triste e cupa – alla ricerca di una allegria di cui la donna intende nutrirsi finché non se ne sentirà satolla; esprimere un desiderio – “che questa serata non finisca mai!” – e fare in modo che sia davvero così.

Monologo finale ai figli, attoniti: “Non sono esemplare, lo so.Tutti devono fare delle cose per se stessi. Sono vecchia ma non sono morta. Quando sei sola c’è gente dappertutto. Non ho la vita davanti, ne ho solo un po’. Ho pensato fosse finita quando vostro padre è morto e invece ho capito che ne ho ancora un po’. È tutto nuovo per me, non so cosa mi succede, sono triste e felice. Vi spavento? Se vi spavento smetto, ma non ne ho voglia”. Un personaggio femminile raro da incontrare al cinema.

Senza fronzoli, senza retorica, senza perdere una vena di realismo Aurélie Saada si inoltra nel territorio raramente esplorato della vecchiaia come luogo vivo, di possibile riscoperta di sé e recupero delle cose perdute, proprio nel momento in cui il tempo si è accorciato. Il film è lineare, non ardito, solca tracciati ipotizzabili e possibili senza scivolare nell’ambito dell’irreale: esistono le difficoltà, a tutte le età, così come ogni momento della vita può essere vissuto nel migliore dei modi. Musica composta dalla regista stessa, esordiente nel campo cinematografico, ma autrice e compositrice conosciuta in quello musicale francese. La protagonista, una ottantottenne Françoise Fabian – che nel film recita una donna di settantotto – splendida, luminosa, generosa, sfaccettata, in stato di grazia.

In sala il 3 aprile ore 16 Cinema Nuovo Sacher all’interno del Festival  Rendez-Vous – Nuovo Cinema francese 


Rose – Regia: Aurélie Saada; sceneggiatura: Aurélie Saada, Yaël Langmann; fotografia: Martin de Chabeneux; montaggio: Françis Vesin; musica: Aurélie Saada; interpreti: Françoise Fabian, Aure Atika, Pascal Elbé, Mehdi Nebbou, Anne Suarez, Damien Chapelle, Bernard Murat, Grégory Montel; produzione: Judith Nora, Priscilla Bertin, Elisa Rodde; origine: Francia, 2021; durata: 102’.

 

 

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