La leggenda del football americano John Madden, allenatore, commentatore televisivo e persino ideatore di videogiochi, scomparso lo scorso anno, affermava in modo saggio che: «l’attacco fa vendere i biglietti, ma la difesa fa vincere le partite». In un certo senso, ieri durante la finale di Champions League tra Liverpool e Real Madrid, questa frase pareva risuonare per tutto lo Stade de France di Saint-Denis, soprattutto quando Mohamed Salah tirava e Thibaut Courtois parava, neanche fosse il Mr. Fantastic dei Fantastici Quattro.
Ovviamente, come in tutti gli sport di squadra con un pallone che rotola e dove agiscono decine di giocatori e influiscono sugli eventi allenatori, preparatori atletici, psicologi, arbitri e, in modo più collaterale, spettatori e cronisti, non si può ridurre il risultato di una partita a un paio di azioni e a un “se” o a un “ma”. Convincimento che non può essere smentito nemmeno pensando agli ultimi rocamboleschi minuti dei tempi regolamentari della precedente semifinale, con i giocatori del Manchester City che vedevano la palla rifiutarsi di compiere gli ultimi centimetri per entrare in porta e quelli del Real Madrid, invece, che andavano ad abbracciare Rodrygo, l’autore del goal decisivo per portare la partita ai supplementari e, a posteriori, per sollevare la quattordicesima Coppa dei Campioni o Champions League dei Blancos grazie, e non solo, alla rete di Vinicius Jr.

Vi è dell’altro. E in quest’altro trova cittadinanza Carlo Ancelotti, il giocatore indomito, uno dei pupilli di Nils Liedholm, alla Roma, e di Arrigo Sacchi, al Milan; l’uomo tornato protagonista dopo infortuni che parevano aver posto una fine prematura alla sua carriera di centrocampista; l’allenatore che sembrava un eccellente “perdente”, dopo i due secondi posti ottenuti sulla panchina della Juventus, la squadra che lo aveva preso per il dopo Marcello Lippi, e che mai l’aveva amato.
Proprio in quegli onorevoli piazzamenti si profilava la figura dello “sfortunato”, del tecnico capace di portare la squadra fino in fondo salvo mancare il traguardo per una pioggia a Perugia o per il goal di un giocatore giapponese che fino al giorno prima si credeva non potesse giocare. Lazio e Roma meritarono ampiamente i titoli del 2000 e 2001, ma si sa, quando si perde con la Juventus…
E così Ancelotti a quarantadue anni con un già notevole curriculum da allenatore, non adeguatamente valutato (promozione in serie A con la Reggiana al primo colpo, secondo posto col Parma e poi le già citate piazze d’onore con la Juventus), si ritrova sulla panchina del Milan. Subentra al turco Fatih Terim, e la sensazione è che Silvio Berlusconi e Adriano Galliani gli abbiano tirato il cosiddetto bidone. Una scelta di sentimenti, poi a fine anno si vedrà. In realtà le cose vanno in modo diverso. Ancelotti ricostruisce il Milan e tra i tanti colpi di genio, ad esempio, trasforma Andrea Pirlo in uno dei più grandi centrocampisti di sempre.

È il 28 maggio 2003, Old Trafford di Manchester. Un giorno e un luogo memorabile per tanti motivi. La prima e finora unica finale di Champions League disputata tra due squadre italiane: Milan-Juventus. I bianconeri sono nettamente favoriti in virtù di un Campionato nel quale si imposero con undici punti sui rossoneri, terzi dietro l’Inter, eliminata nella semifinale della Champions League proprio dal Milan, solo perché il pareggio senza reti si giocò virtualmente in casa dei giocatori guidati da Ancelotti e quello con un goal a testa a casa dei nerazzurri.
Quella semifinale doveva far capire che l’eccellente “perdente” stava per operare la transizione in allenatore vincente…il più vincente. E così andò. Il Milan trascinò la partita ai rigori con la complicità di una Juventus che senza Pavel Nedvev, squalificato, paralizzata in campo e incapace di approfittare nei supplementari di una superiorità numerica (causa infortunio di Roque Júnior), perse una delle tante finali europee. La nemesi si era compiuta.
Quella Champions League cambiò il corso della storia, non segnò il traguardo di una vita, ma l’inizio di una carriera leggendaria, sebbene Ancelotti abbia intenzione di scrivere ulteriori pagine memorabili, considerando che il Real Madrid di ieri sera è una versione transitoria che potrebbe diventare dinastia in un futuro non troppo lontano.
Facendo riferimento alla massima competizione europea, in mezzo alla finale con la Juventus e quella di ieri con il Liverpool ve ne sono altre tre, due delle quali ancora contro gli inglesi. La prima del 2005, la più rocambolesca e quella probabilmente giocata meglio di tutte (per stessa ammissione di Ancelotti), persa dopo un tre a zero a favore dei milanisti poi rimontati in pochi minuti del secondo tempo e definitivamente superati ai rigori. Un incubo (se si pensa al tiro a colpo sicuro di Andriy Shevchenko alla fine dei supplementari) o un sogno, a seconda dei punti di vista. E poi quella del 2007. Finale disputata anche per concessione federale che punisce i rossoneri per Calciopoli ma non al punto da impedirle la partecipazione alla Champions League. Due a uno e la vendetta sportiva col Liverpool si consuma senza neanche troppe emozioni. È l’ultimo grande successo col Milan, squadra con la quale aveva vinto pure lo scudetto del 2004.
Per tornare al successo in Champions League, Ancelotti è “costretto” prima ad allenare il Chelsea di Roman Abramovic col quale si aggiudica la Premier League (2010), e il Paris Saint-Germain degli emiri (un titolo nel 2013). Insomma due squadre che avevano un certo budget a disposizione ma con le quali non riesce a ottenere l’ambita Coppa. Lo chiama il Real Madrid che nel frattempo viveva come un’ossessione la conquista della Décima. E con Ancelotti, la Champions League numero dieci arriva puntuale nel 2014 con una partita quasi persa e recuperata al minuto novantatré da Sergio Ramos. Finirà ai supplementari quattro a uno ai danni dell’Atletico Madrid. Un derby travagliato che ridà ad Ancelotti nuovo prestigio.
Lo assume il Bayern di Monaco e mette in bacheca anche la Bundesliga nel 2017. I passi falsi, invece, li compie col Napoli e con l’Everton, squadre meno facoltose, più difficili da portare alla vittoria. Ma è solo una parentesi, anche se qualcuno pensa che la sua carriera sia finita.
Dicerie, evidentemente, alle quali non danno peso a Madrid. Florentino Pérez gli consegna una squadra un po’ diversa da quella del 2014, apparentemente più debole (per certi versi simile al Milan del 2003) che deve fare affidamento su campioni forse logori e su giovani con potenzialità tutte da verificare. La debacle casalinga con lo Sheriff Tiraspol potrebbe produrre un vero e proprio sisma. Ancelotti tranquillizza tutti e forgia una squadra vera, capace di soffrire, di muoversi all’unisono chiudendo gli spazi, e di colpire al momento opportuno. Se ne accorgono in serie, Paris Saint-Germain, Chelsea, Manchester City e Liverpool, battuti dagli ottavi alla finale con modalità più o meno simili. Quattro squadre costruite per vincere, convinte di aver battuto gli spagnoli e poi costrette alla resa. È il successo più fortunato, indubbiamente, ma anche quello più bello, meno atteso, frutto di capacità tecniche e umane che si sono incontrate al momento giusto. E d’altro canto, nello sport come nella vita, il momento giusto decide spesso la direzione di un destino anche se la costruzione di quell’attimo è lunga e complessa, composta di innumerevoli elementi.

Siamo all’epilogo…per ora. Quando si parla di vittorie, di sconfitte, è semplice, basta contare le une e le altre. Ma così non si va oltre il dato numerico e non si considerano le azioni, gli sforzi, le emozioni, le paure, il coraggio, le casualità. Non sono i cinque campionati nazionali (Italia, Inghilterra, Francia, Germania, Spagna), le svariate coppe nazionali e internazionali, i primati conseguiti, a definire una storia, una vita sportiva. Un rigore sbagliato, una parata miracolosa, una decisione arbitrale, un giocatore distratto o eccessivamente concentrato, cambiano la grandezza di una medaglia, il valore di un assegno, ma non mutano l’eccezionalità di una persona e Ancelotti con quel suo modo di essere e di concepire il calcio è prima di tutto una persona eccezionale.
