Rosalie di Stephanie Di Giusto

  • Voto
3.5

La donna scimmia di Marco Ferreri, una  delle più crudeli e impietose rappresentazioni dell’umana miseria che manipola e sfrutta, è il primo lapalissiano riferimento che viene in mente guardando Rosalie (presentato nella sezione “Un Certain Regard” del Festival di Cannes 2023), opera seconda della francese Stephanie Di Giusto: la storia della fanciulla barbuta oppressa da un mondo maschile violento e sfruttatore sembra nella sostanza la stessa, anche se trasportata in un tempo-spazio differente, e con uno sguardo attraversato da altri umori e altre sfumature.

Se Ferreri faceva del cialtrone circense Antonio Focaccia (Ugo Tognazzi), il rappresentante più vile e grottesco, la faccia sgradevole e laida del boom economico, pronto a sfruttare il “caso umano” del momento (la donna pelosa incarnata da una toccante e sconvolgente Annie Girardot), Di Giusto cambia prospettiva: siamo nella Bretagna di fine ottocento e Rosalie è una giovane, graziosa ragazza di ceto borghese un po’ decadente,  che viene data in sposa al solitario proprietario di una locanda, con un timore e una tensione per l’esito della “trattativa” che fatichiamo a comprendere vista l’apparente avvenenza delle sposa promessa, interpretata dalla bellissima Nadia Tereszkiewicz, che molla il piglio isterico e istrionico mostrato in Forever young di Valeria Bruni Tedeschi a favore di un mood più misterioso e riservato.

Attraverso un processo di progressiva rivelazione sul proprio corpo, nello spazio di un’ intimità contro l’impatto aggressivo della Maria donna scimmia di Ferreri (rinchiusa dentro la gabbia), Rosalie toglie il velo della levigatezza e della superficie. Anche lei è una donna scimmia che camuffa al contrario il suo “difetto”, rasandosi le parti maggiormente visibili, in particolare il viso, e nascondendo le altre sotto i corsetti e i crinolini dell’epoca.

Ma poi succede qualcosa in lei, quando si accorge che quel difetto può essere una particolarità, un tratto distintivo che attrae, incuriosisce e soprattutto rianima la frequentazione e le finanze prosciugate dell’osteria del marito; l’uomo, dal canto suo, vorrebbe ripudiarla una volta scopertane la natura, convinto di essere stato ingannato. Ma visto il vantaggio materiale offerto dallo spiazzante aspetto della moglie, accetta anche la dichiarata ostilità della piccola e bigotta comunità rurale.

A questo punto c’ è la svolta sorprendente nella percezione del corpo transgender ante litteram e ante senso di Rosalie, che comincia ad essere desiderabile, attraente, perturbante agli occhi del reticente marito. Non solo fenomeno da baraccone o escamotage da mettere in mostra per uno spicciolo guadagno, ma l’inaspettata rivelazione di un’ intensità e di una passione fisica oltre il pregiudizio.

Il riscatto del melodramma di genere, dove il genere in qualche modo è anche quello tra specie umana e specie animale, coincide quindi con il ribaltamento del concetto di bello e di attraente. E non l’ovvia, retorica scoperta della bellezza interiore,  in quanto Rosalie esprime anche un’ ambiguità nel controllo manipolatorio di se stessa e della propria immagine per fare un determinato effetto sugli altri;  un aspetto nel quale risiede un potere opposto alla legge della forza e della prevaricazione di una cultura patriarcale da aggirare e sconfiggere, come direbbe Jane Campion, anche attraverso lo stigmatizzato e abusato strumento della seduzione femminile. Il collegamento con la regista neozelandese non è casuale come si evince da una decisiva scena subacquea che ricorda il finale di Lezioni di piano, un atto definitivo e mortifero che può diventare generativo e vitale , la separazione che si trasforma in condivisione.

Certo, il rischio del simbolismo, della metafora, di una certa sottolineatura didascalica sul significato della storia-parabola limita un po’ la portata della forza visionaria contenuta in potenza; la sacrosanta emancipazione di Rosalie, passata attraverso gli insulti e le botte di un popolo barbaro di provincia, non assurge alla forza iconoclasta di un’invenzione degna di Buñuel e Jean-Claude Carriere. Si resta con l’intuizione di una rivolta che annega, questa si, nel mare di un sentimentalismo mai stucchevole o forzato, ma trattato troppo con il freno a mano di una calligrafia o di un’ illustrazione (come Rosalie ammiccante tra peluria e lingerie nelle cartoline d’epoca in cui si fa immortalare). Alla provocazione dell’ affondo, Di Giusto preferisce, magari a ragione, la carezza di una lacrima e di un abbraccio.

La convinzione che dietro ad ogni freak c’è un cuore non riducibile alla morbosa curiosità di spiare cosa succede tra una bella e una bestia, ma un processo di comprensione più profondo e immersivo, aldilà di qualsiasi condizionamento o pregiudizio. E poco importa se il prezzo da pagare è quello di una conclusione semi tragica o, nel migliore dei casi, sospesa o astratta.

Ogni rivoluzione ha il suo tempo per essere attuata e il suo sguardo per essere testimoniata.

In sala dal 30 maggio 2024


Rosalie – Regia: Stephanie Di Giusto; sceneggiatura: Stephanie Di Giusto, Sandrine Le Coustumer ; fotografia:  Voudoris; montaggio: Nasssim Gordji-Tehrani; musiche: Hania Rani; interpreti: Nadia Tereszkiewicz, Benoit Magimel, Benjamin Biolay, Guillaume Gouix, Gustav Kervern; produzione: Tresor Films, Gaumont, Laurent Dassault Rond-Point, Artemis Productions; origine: Francia-Belgio, 2023; durata: 115 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.

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