Noir Casablanca di Kamal Lazraq

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I volti scavati e intensi dei due attori non professionisti Ayoub Elaid (il figlio) e Abdelatif El Mansouri (il padre) sono le presenze sgomente che si muovono all’interno della linea d’ombra di Noir Casablanca (prosaico titolo italiano dell’originale, e più secco, Les meutes ovvero i “pacchi”), opera prima del marocchino Kamal Lazraq, talmente apprezzata nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2023 da ottenere il Gran premio della Giuria.

Un racconto dove si incrociano vari piani con una feconda semplicità da approccio neorealista virato nelle dinamiche e nei colori del noir appunto, all’interno del quale c’è ulteriore spazio per un desolato confronto intergenerazionale: Hassan e Issam sono infatti un padre e un figlio che abitano la miseria e l’impossibilità di immaginare un futuro che vada oltre la sopravvivenza nella periferia  di Casablanca; un non luogo pervaso da un senso di notte e di morte costante, come annuncia l’apertura con il combattimento tra cani clandestini, evento scatenante dell’insulto a un capobanda della zona, il quale chiederà a Hassan, tra i tanti brulicanti disperati in cerca di denaro, di rapire l’esponente della gang rivale e portarlo al suo scopetto per riparare lo sgarbo. Questa shakespeariana spirale di vendetta delle bidonville impatterà contro la realtà dell’inesperienza e della non attitudine di Hassan e del figlio a un fatto criminoso, ed entrambi si troveranno a vagare, in una delle tanti notti senza fine a cui il cinema nero di ogni latitudine ci ha abituato, per gli scenari malfamati e avvolti fisicamente e simbolicamente dall’oscurità di una periferia ormai anonima, terra di nessuno di individui  allo sbando, sradicati da qualsiasi identità che non sia il basico impulso alla prevaricazione, allo sfruttamento, al ricatto; e la problematica risoluzione anche del più  gravoso dei conflitti etici, esplicitamente intrecciati con quelli religiosi nella cultura mussulmana, con lo scaricare, anche qui simbolicamente e letteralmente, il cadavere del senso di colpa nella fornace della barbarie.

Se si accennava al neorealismo, in effetti, era solo perché la recitazione cosi spontanea e immediata di tutti gli interpreti, oltre alla già citata coppia di protagonisti, restituisce l’idea di una presa diretta su quella situazione specifica, nel momento in cui sta avvenendo e la mostra per quello che è, con il sentore di una verità esperita e non solo rappresentata; ma in realtà su questa tessitura cosi lineare e netta Lazraq innesta molto altro in fatto di suggestioni e di turbamenti, in particolare attraverso il personaggio di Hassan: il padre, l’adulto,  la figura che dovrebbe proteggere e guidare il figlio, ne diventa invece, e  non volontariamente, un cattivo maestro di coscienza. Di fronte alla volontà del figlio Issam di costituirsi alla polizia e consegnare il cadavere dell’uomo accidentalmente ucciso in modo da spezzare le catene di questo infernale peregrinare alla ricerca di un aiuto per sbarazzarsi dell’ ingombrante pacco, Hassan lo incita furiosamente a rivolgersi agli strati sempre più loschi e minacciosi di quella danger zone di confine tra il lecito e l’illecito, tra l’apparenza di caos calmo e il brulicare feroce di killer umani e animali. Un comportamento sconsiderato che ha effetti sulla concretezza e sulla psiche: mentre Issam infatti correrà rischi sempre maggiori, Hassan farà i conti con i flash dei fantasmi della propria mente, in brevi frammenti/sequenze che proiettano gli incubi fumanti di un’ineluttabilità ; ma non si tratta di destino o fatalità, non ha a che fare con il “volere di Dio”, tante volte evocato da Hassan rispetto all’omicidio che ha commesso per rimuovere una colpa poi rientrata a forza dalla finestra/voragine dell’inconscio. Ci sono delle azioni che vengono compiute e delle scelte che vengono fatte e si tratta di questioni che svincolano, laicamente, dal richiamo ad una consolazione/assoluzione trascendentale. In questo senso Lazraq ha realizzato un vero noir,  un film girato ad altezza di sguardo umano (dunque immerso e circondato), da una prospettiva di miseria che però non nega un lampo di pietas. Una vibrazione che scorre negli occhi tristi di esperienza e famelici di sopravvivenza di Abdelatif El Mansouri (Hassan), come in quelli puliti e luminosi di  Ayoub Elaid (Issam), nel suo incedere dubbioso e ferito durante il progredire delle atrocità. E ci sono dei dettagli che fermano il dispiegarsi concitato della notte di “genere” e restituiscono un’appartenenza e un senso agli scarni scenari post rurali e suburbani che vengono filmati nei contrasti cromatici delle contraddizioni tra virtù e abiezione: la sequenza del lavaggio del cadavere compiuta dalla madre di Hassan, personaggio femminile di silenziosa e compassionevole presenza, restituisce a quel corpo sballottato da una parte all’altra ai  margini della  città, “rifiutato” addirittura dal mare dopo un tentativo di affondamento sulla barca di un amico/complice pescatore, la dignità di una vita che è stata vissuta e non solo fatalmente interrotta; certo, per Hassan si tratta pur sempre di uno spostamento e di un allontanamento di  responsabilità sul piano morale, ma non è tanto nel gesto in sé, nel rigore della ritualità (che consiste nell’avvolgerlo in un telo bianco e posizionarlo in direzione della Mecca), che risiede il residuo di una coscienza. Sta proprio nel detour di un tempo altro, di concentrazione e di dedizione nei confronti di una persona che non è un pacco appunto, nel prendersi il rischio non strumentale per commettere un reato ed uscirne incolumi, ma ritardare il meccanismo ad orologeria della messa in pratica di un piano di salvezza, comunque già saltato e rimandato più volte.

E i cani dell’inizio e della fine non sono quelli di Amores Perros di Inarittu, creature che hanno un loro spessore emotivo e stabiliscono dei rapporti più potenti e viscerali con i personaggi umani, più che gli egoisti umani tra loro stessi; per Lazraq sono delle proiezioni o, meglio, delle incarnazioni del livello ferino a cui può regredire uno stato particolarmente brado dell’esistenza, ultimo anello di una riformulata struttura sociale fuori legge, fuori norma e fuori confine, avamposti  sacrificabili del massacro tutto culturale e antropologico tra vittime e carnefici. E la conclusione fa venire in mente un altro film in cui la natura canina è lo specchio deformato della bestialità umana, il Dogman di Matteo Garrone, con il mite e opaco tosatore che, sempre per una faccenda di soldi e mortificazione, si trasformava in furioso omicida, spinto con maggiore virulenza e intenzionalità sulla strada della vendetta contro il sadico e brutale bullo che lo aveva platealmente e ripetutamente umiliato. L’umiliazione di Hassan e Issam è già presente in una quotidianità fatta di espedienti e azioni squadriste peraltro subordinate, ed è emblematica di quanto sia pericolosamente valicabile il confine dell’eccesso, del ritrovarsi tra le mani la smisurata manifestazione della morte.

E come per il Marcello protagonista nel film Garrone non resta che guardarsi sperduti e storditi tra le ceneri di un mondo che ha smesso anche di bruciare, con l’umanità che, come direbbe Antonio Capuano, ormai è tenuta in bocca da un cane.

In sala dal 6 giugno 2024


Noir Casablanca (Les meutes) Regia e sceneggiatura: Kamal Lazraq; fotografia: Amine Berrada; montaggio: Héloïse Pelloquet, Stéphane Myczkowski; musica: P.R2B; interpreti: Ayoub Elaid, Abdellatif Masstouri, Abdellatif Lebkiri, Lahcen Zaimouzen; produzione: Barney Production, Mont Fleuri, Beluga Tree; origine: Marocco/ Francia/ Belgio, 2023; durata: 94 minuti; distribuzione: ExitMedia.

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