Festival di Locarno 2024 (Concorso): Luce di Silvia Luzi e Luca Bellino, e Bogancloch di Ben Rivers

Ben Rivers (a sinistra) e il cast di Bogancloch

Sono passati 13 anni da quando abbiamo lasciato Jake Williams in Two Years at Sea (2011), e questa prima mondiale di Bogancloch potrebbe definirsi benissimo il sequel di quell’opera di debutto.  È stato chiesto al regista inglese Ben Rivers come mai abbia deciso di realizzare un altro film su Jake Williams, dato che aveva fatto uno dei suoi primi cortometraggi (This Is My Land, 2007) e poi il suo primo lungometraggio.

Ben Rivers: portiamo avanti una relazione di amicizia di lunga data. Come filmmaker è facile tornare indietro ai film più importanti. Volevo avere più tempo, per parlare di questo soggetto, anche perché penso che il suo volto sappia catturare l’attenzione del pubblico. Amo le ripetizioni, ma questa volta vediamo anche dei cambiamenti di Jake nelle foreste scozzesi. Volevo tornare nei luoghi dov’ero stato, e vederne il cambiamento.

Bogancloch

Alla domanda com’è stato tornare in città, dopo una vita da eremita, visto che le riprese sono durate a lungo, Rivers ha risposto: Ci sono voluti un po’ di giorni per ritornare alla vita normale di Londra dopo aver filmato nel mezzo al nulla per tanto tempo. Mangiare, lavarsi… mi è piaciuto tornare a imparare a rivivere le condizioni cittadine.

Bogancloch è la casa del protagonista, sperduta in una vasta foresta delle Highlands scozzesi. Il film ritrae la sua vita lungo il filo delle stagioni e le persone che, di tanto in tanto, entrano nella sua esistenza altrimenti solitaria, tratteggiando una vita che si sta trasformando sottilmente in un mondo che, viceversa, sta cambiando radicalmente.

Come in Two Years at Sea, le riprese sono tutte in bianco e nero, salvo ogni tanto un fotogramma a colori, che crea una pausa in sequenze portate avanti lentamente, per potere confrontarsi meglio “faccia a faccia” con il protagonista. I dialoghi sono pressoché inesistenti, e non c’è voce fuori campo, perché l’importanza del film si basa su Jake, i luoghi e la musica. Quest’ultima ha rilevanza sia come colonna sonora, senza parole, che proprio come “musical”. Infatti, Jake Williams canterà diverse canzoni durante quest’opera.

L’introduzione alla sua voce avviene lentamente, come d’altronde lo è il cambiamento, e tramite le canzoni si riesce a mostrare molto di lui, anche senza mai parlare veramente. Un’unione tra un documentario e una fiction portato avanti dal ritmo, spesso di una cantata “pacchiana”, che però non infastidisce, perché Rivers ha legato molto bene la componente musicale a quella visiva.

In Jake vediamo una persona che non si connette con le persone, anche se ama le interazioni con gli altri. Vediamo che va a insegnare in una scuola, ma il protagonista non porta mai gli altri nel suo spazio.

Luce di Silvia Luzi e Luca Bellino è uno dei due lungometraggi italiani in Concorso per il Pardo d’oro (l’altro è Sulla terra leggeri, l’opera di debutto di Sara Fgaier). La coppia di registi torna con un film, che ritrae la classe operaia, ma mette sotto i riflettori molto altro ancora: la sofferenza di una giovane ventenne obbligata a lavorare in fabbrica, un rapporto esterno con pochissime persone della catena di montaggio e qualche familiare, la solitudine.

Silvia Luzi e Luca Bellino hanno raccontato di non avere fatto un casting, perché volevano Marianna Fontana come attrice protagonista, in un contesto in cui lavorano da anni.

Luca Bellino: per questo film volevamo un volto (Marianna Fontana) e una voce (Tommaso Ragno), e abbiamo iniziato un percorso insieme. Nei primi 5 mesi Marianna aveva letto solo le prime 5 scene, e stava davvero  in fabbrica con le pelli, dove ha imparato non solo a lavorare come operaia, ma anche a parlare con le colleghe, che ancora non sapevano fosse un’attrice. Proprio lei ci ha presentato Roberta Grimaldi, colei che accompagna la protagonista nel suo viaggio. Anche i dialoghi sono nati direttamente dal cast e non dalla sceneggiatura.

Silvia Luzi

Silvia Luzi: abbiamo lavorato come se fosse un documentario, senza mai alterare i ritmi della fabbrica per le riprese (erano davvero all’opera o in pausa pranzo come vedremo nel film). Un lavoro umanamente strardinario, una forma di alchimia e danza.

Marianna Fontana: Silvia e Luca sono dei registi che ti danno la possibilità di essere liberi; l’attore è parte integrante della costruzione e non viene dopo. Il mio personaggio lavora in un contesto difficile, perciò c’è stata molta preparazione; mi hanno dato film da vedere e libri da leggere per capire come interpretare la protagonista. Sono venuta a conoscenza del film quasi un’anno prima. Mi sono trasferita a Solofra (provincia di Avellino) in Campania, per lavorare veramente le pelli in fabbrica. Ho sentito la fatica di questo lavoro, ma grazie a questa esperienza ho capito chi fosse questo personaggio e che cosa cercasse. Mi ha fatto crescere tanto questo film, facendomi capire umanamente cosa significa il lavoro e l’importanza di dare voce a una persona che ha bisogno di vedere una luce nell’oscurità.

Roberta Grimaldi: Anche per noi della fabbrica, è stata una cosa inaspettata e bellissima. Sveglia all’alba e andare a letto tardi ci siamo abituate, ma è stata una grande emozione ed esperienza partecipare a questo film.

Infine, alla produttrice Donatella Palermo, è stato chiesto com’è oggi sostenere questo tipo di progetto?

Donatella Palermo: da una sceneggiatura di finzione ci siamo trovati alla realtà. L’ho trovato magico e bellissimo, e quando un progetto piace, può sempre essere sostenuto.

Luca Bellino, Roberta Grimaldi, Marianna Fontana, Donatella Palermo

Luce è un film su una ventenne e una voce al telefono. Tutto inizia in un giorno di festa, quando la protagonista, di cui non sapremo mai il nome, viene filmata da un drone. Chiede al fotografo, proprietario del drone, di aiutarla a mandare un cellulare in carcere. Da allora inizia a ricevere delle telefonate da suo padre. In realtà, non capiremo mai se queste telefonate siano vere o immaginarie, ma indipendentemente da ciò restituiscono alla donna un tempo reale al di fuori della fabbrica in cui lavora.

Inoltre, vediamo come tramite le varie telefonate cambino gli stati d’animo della ragazza. Questo collegamento fa incontrare due solitudini, quella della fabbrica e quella del carcere, mostrando i legami familiare e la famiglia come una società nella società. Per la ventenne queste chiaccherate telefoniche sono un’ossessione, per il padre, forse, una liberazione. Due tumulti che si incontrano, e tutto è lasciato all’intenzione e al sentire della protagonista.

Marianna Fontana ha fatto un ottimo lavoro, si tiene il film “cucito addosso” dalla prima all’ultima inquadratura. È una ragazza senza via d’uscita, che sopravvive grazie al ferro e alle pelli, e che sogna qualcosa che non percepisce e non tocca mai.

Quando il film sembrerebbe concluso, con la protagonista in primo piano che rimane sconvolta per essere stata ripresa dal drone, la vediamo apparire in un’ultima sequenza, che la vede cambiata, una scena di chiusura aperta a diversi interrogativi, che può essere considerata come la possibile rinascita della protagonista.

Foto della serata e conferenza stampa Stéphanie-Linda Maserin

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