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Voto
Trovare un proprio posto nel mondo, e il fatto che questa ricerca abbia a che fare sostanzialmente e formalmente con il posizionamento dello sguardo, è una delle questioni preminenti, un nucleo, un punto cardinale di Here, l’ultimo film di Robert Zemeckis, e un tassello emblematico della sua cifra autoriale in continua decostruzione e ricostruzione di un cinema classico hollywoodiano tra epicità e quotidianità, compattezza e disarticolazione, la visionarietà del sogno e la lucidità della disillusione. Il testo di riferimento è la graphic novel di Richard McGuire, della quale la versione cinematografica riprende il presupposto narrativo e visivo: raccontare il tempo attraverso una porzione di sguardo e di spazio ben precisa all’interno della quale si sovrappongono in maniera parallela una serie di vicende intersecate tra la Storia dell’umanità (dai dinosauri alle prime popolazioni indigene), la Storia americana (con la figura di William Franklin, l’ultimo governatore del New Jersey coloniale nonché figlio di Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori della Costituzione degli Stati Uniti d’America) e le storie delle famiglie che, dagli inizi del ‘900 fino ad arrivare all’appena trascorso 2024, hanno abitato la casa che su quel terreno è stata costruita. C’è dunque talvolta un simultaneo cambiamento di proporzioni nelle inquadrature che si aprono, o meglio si affacciano, su un’epoca piuttosto che su un’altra , proprio perché quando entra in scena il soggiorno dove scorrono la parte maggiore degli avvenimenti, l’esterno viene ulteriormente rinchiuso e (de) limitato.

Ma il confine spazio-temporale cosi teoricamente enunciato per mezzo di un’intertestualità che utilizza palesemente e trasparentemente lo schermo come se fosse il monitor di un qualsiasi apparecchio elettronico immerso nella stratificazione strutturale dei contenuti on line, innescando in chi guarda il corto circuito di dover esercitare una scelta su quale finestra attenzionare lo sguardo nonostante la staticità del punto di vista dato, non resta appeso ad un’intenzione; come sempre nel cinema di Zemeckis la forma, la tecnica e la tecnologia, l’apparato produttivo e il meccanismo narrativo si fanno sentimento, afflato, visione esperita e sofferta di un universo verso il quale si è in tensione e in trasformazione e che a volte è negato ed interdetto all’esperienza dalla poca lungimiranza, dall’incapacità, che qui si fa letterale e testuale, di guardarsi intorno. Così il cerchio si restringe gradualmente sulla coppia più iconica e in risonanza con un immaginario che appartiene in primis a Zemeckis, perché è da ciò che si conosce che ci si comincia a posizionare e a osservare, e in seconda istanza a una lunga generazione cinefila e spettatoriale: i corpi e i volti performanti di Tom Hanks fu Forrest Gump e Robin Wright fu l’amata Jenny, che ora interpretano un altro tour de force temporale come Richard e Margareth, collegati e scollegati in alternanza da un luogo del presente, del passato e del futuro, sono l’estrinsecazione/incarnazione quotidiana e domestica della pratica della memoria; che non è, appunto, un concetto, ma l’accumularsi di ore, minuti, secondi, oggetti, oppure il depositarsi della polvere sugli oggetti e sui mobili, l’erosione della materia da parte dell’avvicendarsi delle stagioni e dei cambiamenti climatici.
Ed è proprio il lavoro su quei corpi e su quei volti a portare, come problematico bagaglio della contemporaneità, l’utilizzo massiccio dell’intelligenza artificiale per ringiovanire o invecchiare Hanks e Wright, e permettere cosi loro di coprire tutte le età dei due personaggi, dalla luminosa giovinezza alla crepuscolare vecchiaia. D’altronde proprio in Forrest Gump (1994, trent’anni prima), Zemeckis introduceva la CGI come strumento di manipolazione dell’immagine, montando insieme l’archivio di John Kennedy e di John Lennon con le riprese su green screen di Hanks/Forrest, e spalancando lo scenario per un serie infinita di incontri virtualmente possibili. Quello che Zemeckis continua a fare in Here non è diverso e anzi rivela una capacità di entrare in dialettica con le possibilità del mezzo artificiale, rivelandone anche le pericolosità e le contraddizioni, fin da una certa ambiguità del titolo che avrebbe potuto anche intitolarsi Here (?). Dove sono i corpi e i volti reali di Tom Hank e Robin Wright? Qual è il vero corpo/volto che corrisponde loro anche al di fuori del campo di ripresa o di azione drammaturgica? Interrogativi questi che vanno più in profondità rispetto alla sensazione spiazzante provocata dall’effetto speciale e che, ancora una volta, entrano nel tessuto/vissuto del film; la malattia degenerativa della quale a un certo punto comincia a soffrire Margareth non è solo l’espediente che rinforza la riflessione sul tempo perduto (espressa comunque con una calorosa e davvero toccante semplicità), ma la manifestazione sensoriale di una perdita di sé per la quale non resta altro che restare attaccati agli oggetti e alla loro dimensione materica quando qualsiasi cosa, oramai, può essere soggetta a modifica e riformulazione da un fattore esterno, oltretutto meccanico e non controllabile nonostante generato e posto in opera dagli stessi esseri umani che ne diventano paradossalmente amorfi avatar .

Peraltro Margareth è portatrice anche di una necessità di movimento/spostamento autentica e dinamica, e non solo suggerita o ipotizzata e procrastinata, fuori dal quadro familiare, perché vorrebbe lasciare quella casa sulla quale incombe la presenza castrante ed egoriferita del padre di Richard, per costruire altrove una propria storia, una diversa genealogia. E qui entriamo nell’altro potente eco zemeckisiano, quello dell’immenso fuori campo che circonda la cornice e che preme su di essa fino a far esplodere i legami, i desideri, le frustrazioni. Mentre assistiamo al succedersi di relazioni, nascite, morti, partenze e ritorni, nella specificità monoculare di una prospettiva, all’esterno di quel perimetro la vita egualmente si muove e produce conseguenze (in questo il film è anche una metafora acuta del tempo e dello spazio vissuti durante il periodo della pandemia, al quale si fa riferimento) e non c’è possibilità di sottrarsi a questo flusso, nonostante il tentativo, toccante più che disperato, di dargli una circolarità, un contenimento, una ciclicità.
Per tornare all’immaginario, Zemeckis se ne serve a tal proposito per raccontare quanto il cinema spettacolare abbia tentato di racchiudere, e in parte di far infantilmente regredire, un bisogno di sognare che riproduca la meraviglia e lo stupore del vedere , come mostra nello spielberghiano incipit da saga giurassica, o la ricostruzione del mondo preistorico nella chiave di una sorta di onirico doppio; una grandezza rimpicciolita nelle sue ambizioni a specchio dell’esistenza di gente comune, a filtro da applicazione smartphone per mutare i propri connotati senza seguire neanche più l’ordine cronologico di un racconto. Una commistione di spaesamento e presenza, di inquietudine e pacificazione, di consolazione e dubbio fino all’ultimo, spirale fotogramma che, in contrappunto, si concede uno spostamento di sguardo, un contatto temporaneo eppure ricorrente con la consapevolezza di esserci stati. Più pesanti e segnati di una piuma che ignava svolazza nel cielo.
In sala dal 9 gennaio 2025.
Here – Regia: Robert Zemeckis; sceneggiatura: Eric Roth dall’omonima graphic novel di Richard Mc Guire; fotografia: Don Burgess; montaggio: Jesse Goldsmith; musica: Alan Silvestri; interpreti: Tom Hanks, Robin Wright, Paul Bettany , Kelly Reilly, Michelle Dockery, Gwilym Lee, Daniel Betts; produzione: Robert Zemeckis, Jack Rapke, Derek Hogue per Miramax. ImageMovers, Playtone; origine: USA, 2024; durata: 104 minuti; distribuzione: Eagle Pictures.
