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Voto
Sullo schermo completamente nero che trasmette la sensazione di un ignoto spazio profondo, si scorge un puntino rosso che pulsa in lontananza e che focalizza, sulla nota ripetuta e riprodotta nell’amniotico e ipnotico effetto di un sonar, l’attenzione su una parte di quella voragine dentro la quale si resta già catturati, avvolti, meravigliosamente persi come direbbe David Lynch. È questa l’overture organica che Adrian Marben ha creato per quella che rimane la sua più famosa opera documentaria, Pink Floyd at Pompeii (1972) , che oltre cinquant’anni dopo, in questa contemporaneità satura di restauri e rimasterizzazioni, trova una nuova vita audiovisiva, compensando e valorizzando anche la parte sonora attraverso la pubblicazione integrale dell’album, in vinile e CD, quando all’epoca dell’uscita del film ne circolava solo la stampa non autorizzata di alcuni brani su bootleg.
Paradossalmente e simbolicamente si può ritenere che proprio la clandestinità del bootleg , con quel sentore di qualcosa che fluisce e che non può essere formalmente controllato, fermato e posseduto nella sua sostanza più profonda e misteriosa, restituisse con maggiore potenza espressiva il significato dell’opera(zione) compiuta da Marben sui Pink Floyd, colti nella sospensione spaziale e temporale di un processo creativo simultaneamente compiuto, in atto e in divenire. Innanzitutto, la caratteristica che lo rende unico rispetto ai molti altri film su gruppi musicali che furoreggiavano in un periodo storico particolarmente ricco, audace e generativo, dove la sperimentazione e la ricerca venivano accolte con entusiasmo da un pubblico sempre più vasto e in trasformazione, concerne proprio nella completa assenza di spettatori davanti alla performance eseguita all’interno dell’Anfiteatro Romano di Pompei. Ancora nel turbinio delle grandi masse woodstockiane (il film diretto da Michael Wadleigh e montato da Thelma Schoonmaker che testimonia quel cruciale evento musicale era uscito nel 1970), Marben fa al contrario la scelta radicale di tornare agli aspetti primordiali e concettuali dell’atto del comporre, suonare e cantare, salvo poi destrutturali e portali su un “palco” non abitato dai corpi bramanti contatto e idolatria del presente, ma dalle entità risonanti del passato, liberate però dalla loro cornice museale. Echoes, la lunga suite di 23 minuti e 31 secondi che occupa il lato B dell’album Meddle del 1971 (la cui realizzazione è la struttura portante del documentario), divisa in una prima e in una seconda parte, diventa emblematicamente il leitmotiv di un’esperienza che si affaccia sul fuori della Storia e del Mito come congiunzione con l’ elemento divino evocato, interrogato, scavato nelle sue possibili ragioni e manifestazioni; una tensione generativa che non rimane bloccata nella vaghezza di un metafisico generico, ma è calata nella forma umana, accessibile e tangibile, del volto: i close up ravvicinatissimi dei visi giovani e vibranti di David Gilmour, Richard Wright, Nick Mason e Roger Waters sono il controcampo/canto non solo della spazialità strabordante di una Pompei che rimanda in continuazione all’immagine di un collasso e di una deflagrazione, un’ implosione sotto la minaccia eruttante del Vesuvio.

Il montaggio in alternanza con le facce pietrificate in espressioni di terrore e sofferenza, nell’attimo esatto del passaggio dalla vita alla morte, degli abitanti sepolti vivi dalla lava, restituisce la portata e la durata di un avvenimento che racchiude in sé un mistero inesplicabile come lo è la genesi del mondo, intorno al quale ruotano le domande e le invocazioni dei componenti del gruppo, spesso impressionati , secondo uno stilema linguistico abbastanza comune nel linguaggio cinematografico degli anni 70, nella cornice di uno stop frame. Il fermo immagine (maggiormente marcato e segnato nel formato pellicola in 35 mm) non si limita comunque a raccontare prosasticamente l’aspetto eterno, quasi epico, di quello che a suo modo è un altro avvenimento ( il poter assistere all’esecuzione in presa diretta della musica dei Pink Floyd) processato dal dispositivo cinema come testimonianza e documento. C’è la volontà di cogliere la scintilla, nella duplice accezione di quella extrasensoriale rivolta verso il cielo, anzi il cosmo, e di quella che sgorga dal magma terragno del vulcano, anch’esso incluso come frammento sublimale in alternanza all’immagine della faccia irregolare e spigolosa di Waters; quest’ultimo tornerà a più riprese a far vibrare il gong sparato verso il sole in controluce – una suggestione a cui non fu probabilmente insensibile il Ken Russell che concepì l’incipit e il finale della versione cinematografica di Tommy (dagli Who, altro masterpiece della storia del rock), un gesto che scandisce il tempo secondo una ritualità che fa vibrare e poi espandere il suono. Si è letteralmente accecati, e non nella chiave edipica di non voler vedere e sapere le proprie responsabilità, piuttosto in quella psichedelica di assurgere, o provare ad assurgere, ad un ulteriore livello di conoscenza, di visione e di ascolto.
Nonostante la percezione di una lunghissima, costante digressione, Marben non ha comunque mai perso di vista la necessità pragmatica di costruire un racconto, e ha integrato, oltre ai quattro giorni di riprese effettuati a Pompei nell’ottobre del 1971 e a quelle realizzate nel dicembre dello stesso anno nello studio cinematografico Europasonor di Parigi, delle sequenze girate successivamente, nel gennaio del 1973, durante le sessioni di registrazione di un album monumentum come The Dark Side of the Moon negli Abby Road Studios di Londra. L’incrociarsi e il sovrapporsi di periodi musicali antecedenti e posteriori, con le sovraincisioni delle parti strumentali sulle basi di tre brani (On the run, Us and Them e Brain Damage) rimesse in scena come puro atto performativo dai membri della band, seppur dettati dal bisogno del regista di gonfiare il lavoro fin lì assemblato a un minutaggio più da sala cinematografica (da un’ora a un’ora e mezza circa) accrescono lo smarrimento esperienziale; ne consegue un’attivazione nel ritessere fili, collegamenti, andate e ritorni tra partiture e strumentazioni. Un aspetto rilevante in particolare per un pubblico multigenerazionale al quale è stata trasferita la rappresentazione di tempi, spazi e pratiche musicali non ripetibili e difficilmente concepibili nell’attuale società dello spettacolo; modalità produttive e artistiche repentinamente mutate nel corso degli anni, provenienti da un pianeta troppo distante per essere immediatamente riconoscibili, assimilabili e tantomeno riproducibili.

Le stesse band, collettivi ora permanenti ora itineranti che condividevano la quotidianità ordinaria della sala d’incisione e quella straordinaria dei tour, talvolta con la legittima rivendicazione di un pezzo di torta di mele senza crosta come fa l’adorabile Nick Mason, non esistono più con quel vissuto esperito e quel sentimento suscitato di appartenenza e di progettualità. Basti inoltre pensare, anzi semplicemente osservare la pesantezza volumetrica e materica dell’apparato tecnico con il quale i Floyd costruivano il suono delle loro complesse architetture, trasportato con un camion nella sua interezza e integrità, incluso un sistema di registrazione a 24 piste, fino al cuore fumante del sito archeologico, con gli effluvi delle solfatare pozzolane mai cosi lontani e cosi vicini. Distanti galassie dalla completa smaterializzazione alla quale è stato sottoposto qualsiasi linguaggio, virato dal supporto analogico allo (s)caricamento digitale. Chissà quanto era lungo il cavo utilizzato per collegare l’attrezzatura alla presa della corrente elettrica del municipio cittadino in modo da produrre la quantità energetica sufficiente ad alimentare quel microcosmo impiantato. Un filo della memoria che ci immerge nella possibilità di un confronto, tra la vertigine dell’altezza e la profondità delle fondamenta, tra la contemplazione del sublime e lo stordimento dei sensi … tutti gli intercambiabili immaginari e avvicendamenti che sono intercorsi tra noi e loro.
In sala dal 24 al 30 aprile 2025.
Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII – Regia: Adrian Marben; fotografia: Willy Kurant, Gabor Pogany; montaggio: Nino Di Fonzo, José Pinheiro; musiche: Pink Floyd; produzione: Steve O’Rourke, Michele Arnaud, Reiner Moritz; durata: 85’minuti; origine: Gran Bretagna/Francia, 1972/2025 (in 4K); distribuzione: Nexo Studios.
