Ennesimo Film Festival 2025 (Fiorano Modenese, 27 aprile – 4 maggio): Intervista al costumista Sergio Ballo

Costumista per Bellocchio, Soavi, D’Alatri e Wilma Labate, vincitore del David di Donatello per i migliori costumi con Rapito, Sergio Ballo si accomoda sorridente nella poltrona davanti a me, mi prega di non toccare il suo amato cane, e storce il naso quando utilizzo un termine inappropriato riguardo al suo lavoro nella mia prima domanda. Ma dopo pochi scambi, si apre in un racconto limpido, divertito e appassionato di una vita trascorsa a dare forma ai personaggi attraverso i costumi.

Domanda: Partiamo dall’inizio: quando disegni un costume, da dove cominci? Dal personaggio, dalla sceneggiatura, da un’intuizione visiva?
Sergio Ballo: Io parto sempre dalla sceneggiatura. Il personaggio è lì dentro. È il punto fondamentale. Poi certo, può arrivare anche un’intuizione, magari da un quadro, un pittore, ma per me viene dopo. Ho fatto soprattutto film in costume, non tanti lavori ambientati in epoche moderne. L’approccio è diverso.
Spesso non faccio bozzetti. Non per snobismo, ma perché preferisco lavorare con immagini di riferimento che restituiscano un’atmosfera, un mood. Ora va di moda, ma io l’ho sempre fatto così. Quelle immagini non devono riprodurre il vestito, ma evocare un mondo.

Non vieni da una scuola di costume?
No, non vengo da una scuola. Molti miei colleghi sono passati dal Centro Sperimentale o dall’Accademia di Belle Arti. Io ho cominciato da solo, a quarant’anni. Ho fatto il ragazzo di bottega per molti anni prima di firmare un progetto mio. Non ho mai amato davvero questa professione. Non si può dire che io abbia avuto il fuoco sacro. È stato un compromesso. Poi, certo, ci sono state esperienze importanti e gratificanti.

Come si lavora quando i tempi sono stretti?
Oggi è la normalità. Magari ti dicono chi è l’attore un giorno prima. A volte nemmeno ti danno le misure. Ti ritrovi a fare la figura del peracottaro.
È una delle sciatterie delle produzioni italiane. I tempi sono cambiati, Piero Tosi ebbe un anno per preparare Ludwig. Oggi devi arrangiarti. È anche per questo che mi sto allontanando da questo mestiere. Se un giovane mi chiedesse di fare il costumista, oggi, non glielo consiglierei.

Veniamo ad una delle tue collaborazioni più importanti, quella con Marco Bellocchio. Che tipo di rapporto avete avuto?
Un rapporto di fiducia, credo, e di stima. Bellocchio ha un certo pudore per l’immagine. Non carica, è uno di poche parole. La prima volta che ho lavorato con lui è stato per La balia, da una novella di Pirandello. Non conoscevo nemmeno bene la sua filmografia. L’ho affrontato in modo molto scolastico.
L’ultimo progetto, invece, è stato Rapito. Dopo anni che non lavoravamo insieme, sono stato io a propormi. Quel film era un sassolino nella scarpa che volevo togliermi. Una questione personale.

A proposito di Rapito, vuoi dire qualcosa sulla serata dei David?
Innanzitutto il sistema della giuria dei David non è credibile, quando facevo parte della Giuria, a volte mi vergognavo di votare, perché non avevo avuto modo di vedere tutti i film. O si istituiscono giurie “speciali”, composte da una commissione che per un anno intero guarda tutto e poi vota con cognizione di causa, oppure il sistema non regge. Così com’è, il David di Donatello è diventato come Sanremo.
Quella sera io volevo fare un discorso serio, sul tema, perché il film lo ha trattato in modo blando, con una sceneggiatura leggermente zoppicante. Ma non volevo fare solo commemorazione, volevo scuotere.
Hanno pensato che fossi isterico o offeso perché non hanno premiato anche Daria (Calvelli, ndr), ma non era solo quello il punto. Solo il Fatto Quotidiano ha riportato il senso vero del mio discorso (vedi sotto).

Hai parlato del trucco e delle pettinature. Com’è il rapporto tra costumi, trucco e parrucco?
In Italia non siamo organizzati come negli Stati Uniti, dove i reparti lavorano a compartimenti stagni. Qui ci si confronta. Io, ad esempio, con Alberta Giuliani e con Enrico Iacoponi (acconciature e trucco, entrambi vincitori del David nelle rispettiva categorie, ndr) ho lavorato bene. In un film storico il trucco deve essere leggero. Le pettinature, invece, sono fondamentali: fanno parte della sfilata.
Confrontarsi è importante, anche se ci sono colleghi a cui non puoi dire nulla. Ma in generale, con i parrucchieri mi trovo bene.

Secondo te il pubblico sa quanto conta un costume?
No. Il pubblico pensa che il costumista sia un sarto, o che prenda i vestiti a casa, o che disegni tutto. Ma non è nessuna di queste cose.

C’è un personaggio o un attore a cui sei rimasto legato?
Sì. Willem Dafoe. Gli feci solo la corona di spine per L’ultima Tentazione di Cristo. Era un film girato con pochissimi mezzi, nessuno voleva produrlo. C’era la moglie di Scorsese alla produzione. Era un film fatto di passione, con grandi professionisti. E Scorsese, allora, non se la tirava. Era cinema vero.

Parliamo di Itaca – Il ritorno, il recente film di Uberto Pasolini.
È un film da vedere in inglese. Il doppiaggio italiano ha rovinato i dialoghi. È lento, e il pubblico di oggi non è più abituato. Ma c’è una prova d’attore incredibile, quella di Ralph Fiennes nei panni di Ulisse. E anche Juliette Binoche. Naturalmente, con lei, come con Isabelle Huppert e Giovanna Mezzogiorno, ho anche litigato, ma sono attrici di grande carisma che ricordo con stima. Con un’attrice del genere devi fare i conti con la sua fisicità, i suoi difetti, il modo in cui si muove.
Noi costumisti siamo un po’ come i medici: vediamo tutto del corpo, se uno ha le caviglie o il collo grossi, se ha la scoliosi, ogni difetto ci viene rivelato. E quindi deve per forza instaurarsi un rapporto di fiducia e confidenza.

Che tipo di rapporto hai avuto con Uberto Pasolini?
Era un ciclo che si doveva chiudere. Lo conoscevo come produttore, mi ha chiamato. Riguardo ad Itaca, mi ha mandato il copione e io gli ho detto: “Perché non lo fai un po’ africano?”, e lui ha risposto che ci stava pensando anche lui.
Poi, certo, è molto presente. Viene alle prove costume, anche da regista non rinunciava al suo approccio da produttore. Una volta l’ho cacciato: mi metteva in dubbio ogni cosa. Gli ho detto: fammi finire, poi giudichi. Ma è una persona intelligente, spiritosa, e con una visione precisa.


Riportiamo qui, per completezza, l’intervento di Sergio Ballo pubblicato sul “Fatto Quotidiano”: “Volevo dedicare questo premio ad una amica che non c’è più. Stefania pochi giorni prima di morire ha voluto darmi il taled (scialle di preghiera ebraico) di suo nonno morto ad Auschwitz il 30 maggio de 1944 pochi giorni prima che gli alleati entrassero a Roma. L’hanno preso per una spiata italiana. Questo mi riporta a un discorso generale sul film di Marco che ho voluto disperatamente fare. E sul caso di Edgardo Mortara (su cui il film è basato ndr), il piccolo ragazzino (nato ebreo poi rapito dal papa e tramutato in cattolico in quanto battezzato in segreto dalla domestica a metà ottocento a Bologna ndr) che morì in Belgio poche settimane prima che i nazisti lo invadessero. Nonostante due battesimi per le leggi razziali italiane un ebreo sarebbe finito in un campo di concentramento. Oggi è un periodo triste per tutti noi perché c’è un ritorno perverso dell’antisemitismo in quanto l’Europa adesso sostiene la baraonda a cui stiamo assistendo. Ora l’Europa è diventata improvvisamente sionista. Dico una cosa corretta, non sto parteggiando per nessuno. Si prende la bandiera del sionismo che però è un concetto molto complesso. Il sionismo può essere anche cristiano, revisionista. Però l’Europa in questo momento continua ad essere antisemita. Ed è una cosa terribile”.

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