Festival di Cannes: Rapito di Marco Bellocchio (Concorso)

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Se volessimo definire con un solo aggettivo l’ultimo film di Marco Bellocchio – il ventiseiesimo lungometraggio di una gloriosa carriera iniziata nel 1965 con il rivoluzionario I pugni in tasca -, non potremmo che scegliere il termine di “potente” anzi addirittura “potentissimo”. E ciò senza traccia di esagerazione, dato che tutta la più recente produzione del grande cineasta di Bobbio, si è posta e si pone sotto il segno magico di una continua (ri)nascita artistica. In questo particolare caso, poi, toccando un tasto, quello del suo rapporto con la religione, che aveva trattato già in altri momenti della sua opera, per esempio in Nel nome del padre (1972) oppure più di recente nell’Ora di religione (2002) – sempre, comunque, con accenti decisamente polemici. Cosa che accade, ma in una maniera assai meno esplicita di un tempo, anche qui nel caso di Rapito – appena passato in Concorso al Festival di Cannes e dal 25 maggio anche nelle sale italiane – dove qualcuno, forse, potrà avere da ridire sulla rappresentazione data del Papa-Re Pio IX (1792 – 1878). Inizialmente partito da posizioni liberali quando era stato eletto pontefice, l’ultimo sovrano dello Stato Pontificio dal 1846 al 1870 via via aveva cambiato idea sotto l’incalzare degli eventi storici, così come il suo Stato che nel 1860 si era ridotto al solo Lazio sino alla presa di Roma del 1870, data con cui si sancisce la fine definitiva del potere temporale della chiesa romana. Il suo pontificato, di quasi 32 anni, continua a detenere il record di lunghezza nella storia millenaria della Chiesa (a parte San Pietro) e nel 2000 è stato beatificato da Giovanni Paolo II, provocando ancora polemica e malumore nella comunità ebraica internazionale.

Ma dalla Storia patria che comunque in questo film sarà sempre importante tenere a mente facendo qualche sforzo di memoria, veniamo al film di Bellocchio dove si narra una vicenda abbastanza incredibile e – lo confessiamo – a noi sconosciuta, ricostruita qualche decennio fa dal libro del giornalista Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (Milano, Mondadori 1996, adesso ripubblicato per l’occasione negli Oscar) a cui il film liberamente si ispira. Nonché dal volume dello storico americano David Kertzer Prigioniero del Papa Re, sempre del 1996 (ma in Italia tradotto da Rizzoli nel 2005).

Siamo nella Bologna del 1858, ancora parte dello Stato pontificio, quando un bambino ebreo di sette anni, Edgardo (Enea Sala, da piccolo) viene strappato alla famiglia Mortara (Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi) per essere cresciuto come cattolico. Come mai? Il bimbo era stato segretamente battezzato dalla domestica della famiglia quando era ancora un neonato per impedire che potesse “finire nel limbo”, poi sei anni dopo la donna, per denaro, aveva rivelato il fatto al grande Inquisitore del Sant’Uffizio in città (un “moroteo” Fabrizio Gifuni). Ciò faceva sì che a Edgardo dovesse spettare, secondo le rigide regole del diritto canonico, un’educazione cattolica. Trasferito a Roma in un Convento, il bambino sarà cresciuto e educato secondo i precetti cristiani sotto la custodia del Papa (Paolo Pierobon vagamente mefistofelico ), malgrado le proteste, della comunità ebraica, e quelle della comunità internazionale dove il caso aveva assunto una importante dimensione politica.

Neppure il processo quando ormai Bologna era diventa parte del Regno di Sardegna, contro l’Inquisitore, il domenicano Pier Gaetano Feletti, che venne assolto, aveva potuto cambiare il dato del rapimento – e qui una frecciatina alla capziosità e alla (in)giustizia della magistratura in Italia, allora e oggi, sembra evidente, E nemmeno il fatto che le truppe sabaude avessero conquistano la Capitale nel 1870, potrà permettere il congiungimento di Edgardo (Leonardo Maltese, da grande) alla famiglia – ma non vogliamo rivelare il come ciò avvenga e il seguito degli eventi, per lasciare allo spettatore il gusto di conoscere e seguire questa vicenda e i suoi incunaboli, in una storia dai tratti surreali che aveva attirato a suo tempo anche l’interesse di Steven Spielberg a farne un film (e che lo avrebbe realizzato a partire dal libro di David Kertzer).

Cosa sarebbe diventato questo caso nelle mani del grande regista americano con i possibili lacci di una grande produzione in inglese, non ci è dato saperlo ma che invece sia stato realizzato da un autore italiano così attento e consapevole come Marco Bellocchio è un fattore di gran soddisfazione, visto poi il felice risultato che ci auguriamo possa venir apprezzato dalla Giuria del Festival di  Cannes.

Di fatto Rapito non è diventato un prodotto minimalista né ha declinato alla sua funzione di essere un bel film in costume, anche spettacolare, in cui si ricostruisce, con finezza e bravura, l’Italia e la Roma dell’Ottocento (ottima la fotografia di Francesco Di Giacomo). All’interno di una trama che ci obbliga a ricordare e a ripensare alla nostra Storia patria all’epoca della sua Unificazione, raccontata, com’è, con una strategia visiva di taglio realistico, Marco Bellocchio però non manca di inserire alcuni dei suoi stilemi stilistici “sur-reali” come in Buongiorno, notte (2003) o, più di recente, in Esterno notte (2022).  Con essi, infatti, l’invenzione fantastica vuole essere più “reale” della riproduzione naturalistica dei fatti in quanto serve a offrirci una chiave di lettura più alta e approfondita di essi.

Ben interpretato da tutto il cast – in cui ci piace segnalare Filippo Timi nella parte del Segretario di Stato, Cardinal Antonelli –  Rapito parte lentamente, quasi in sordina ma nel corso dei minuti diventa sempre più avvincente, alterando tocchi umoristici a frecciate polemiche contro l’integralismo religioso, spaziando tra superstizione, fede, ricerca della giustizia e arroganza del Potere sia esso temporale che spirituale.

È un film importante di un grande artista che a quasi 84 anni si può permetter di offrirci ancora un film sorprendente e appassionato, oltre che come si diceva all’inizio di una potente, prorompente forza espressiva. Di ciò noi, il cinema italiano non può che ringraziarlo sentitamente, con gratitudine. Grazie Marco.

In sala dal 25 maggio


RapitoRegia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; scenografia: Andrea Castorina; costumi: Sergio Ballo, Daria Calvelli; effetti speciali: Rodolfo Migliari; interpreti: Barbara Ronchi, Fabrizio Gifuni, Filippo Timi, Corrado Invernizzi, Fausto Russo Alesi, Paolo Pierobon, Leonardo Maltese; produzione: Paolo Del Brocco, Simone Gattoni, Beppe Caschetto per IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2023; durata: 125 minuti; distribuzione: 01 Distribution.

 

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