Il mio compleanno di Christian Filippi

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Tra lo shock di un grido e il mezzo tono di una scintilla di consapevolezza, la vita in assillo del quasi diciottenne Riccardo sembra essere una guerriglia intimista, che oscilla tra dipendenza affettiva e voglia di emancipazione, rifiuto ostinato e contrario e ricerca di un senso. Sono premesse che ci fanno capire come Il mio compleanno, esordio nel lungometraggio di Christian Filippi sviluppato all’interno della dodicesima edizione della Biennale College Cinema del Festival di Venezia, sia un film attaccato con le unghie e con i denti a una realtà che il contemporaneo cinema italiano ha messo un po’ tra parentesi, preferendo cercare storie da raccontate nel passato o virando qualsiasi sfumatura nel tono più rassicurante della commedia. Quello che colpisce e conquista di più di quest’opera prima è invece proprio l’andare a farsi carico di una rabbia e di una fragilità giovani – da un punto di vista di urgenza espressiva, prima che di età anagrafica dei suoi personaggi- e metterla in scena sul paesaggio a tratti desolante amarezza a tratti pulsante euforia di una precisa, impellente condizione emotiva e psicologica. Riccardino, il cui vezzeggiativo nominale cerca di alleggerirne l’intensa presenza, vive in una casa-famiglia per adolescenti nella limitrofa periferia romana di oggi, con alle spalle una situazione familiare particolarmente complessa e problematica.

Una condizione che percepisce, nel suo istintuale modo oppositivo di porsi contro tutto e tutti, non come l’opportunità, per quanto temporanea, di trovare una sicurezza abitativa e affettiva ma la costrizione a non esprimere lo spontaneo impulso che sente: ritornare dalla madre, dalla quale è stato separato a causa dell’instabilità della donna incapace di prendersi cura in primis di se stessa, spinta a buttarsi via tra piccoli reati e prostituzione da un sentimento autodistruttivo dove non c’ è posto per nessun altro, neanche per un figlio. Riccardo non vuole però ne vedere ne ascoltare le ragioni di questo impossibile ricongiungimento, nonostante trovi in Simona,  un’operatrice della casa in cui si trova, quella giusta dose di amore, di accoglienza ma anche di schietto e diretto confronto che potrebbero avviare in lui un processo di cambiamento, una forma di tutela per il suo essere in continuazione senza pelle. Uno dei meriti del film è però quello di non ridurre il vibrante soggetto a cui si accosta nell’esposizione di un emblematico caso sociologico con denuncia incorporata  da una parte o rinchiuderlo nell’artificioso arco di una narrazione para serialità televisiva dall’altra. È uno sguardo “ a contatto”  quello di Filippi, che si avvicina e si allontana da Riccardo e cerca di coglierne le precoci asprezze e le spiazzanti tenerezze attraverso il suo manifestarsi nello spazio: le movenze in un mix di grazia e scompostezza del suo ballo e la variabilità del volume della  sua voce (peraltro con un accento contaminato da inflessioni che sembrano venire da un qualche altro est o sud del mondo) lo rendono vivido, riconoscibile, portatore di una forza che attira e respinge. Non c’è bisogno tanto di conoscere precisamente la sua storia pima di adesso, i pochi elementi che vengono offerti sono sufficienti a delinearne un ritratto che non sarà mai completo o completato, ma rimarrà scontornato nei tratti in fieri di un abbozzo, di un momento di totale apertura nel quale ancora è possibile diventare chiunque.

Nel seguire un tragitto così ondulante, perfino la programmatica dicotomia sui personaggi femminili non resta limitata nella potenziale ricchezza emotiva. Simona, la madre putativa, e Antonella, la madre biologica, vicine e lontane nel declinare una pratica di maternage e accudimento, possiedono la stessa irrequietezza e non riducibilità ad uno schema, un discorso, un’appartenenza del figlio che hanno scelto e che hanno partorito. Passare dall’una all’altra in una doppia separazione e in un doppio ricongiungimento per Riccardo significare fare in conti con se stesso, con una scelta, con la parte della sua storia da cui vuole distaccarsi per andare incontro verso quella che vuole continuare a portate avanti.

Anche in questo caso però nessun elemento didascalico o giudizio moralistico; non c’è una parte da difendere contro un’ altra, perché Simona sente le pressioni e le contraddizioni di un sistema socioassistenziale che detta regole prima di comprendere, che interviene prima di ascoltare e che rischia di produrre l’impantanamento in una staticità senza respiro, una negazione di movimento e di rischio mortale per la relazione d’aiuto e d’amore. Antonella ha invece una residuale capacità di attenzione materna per Riccardo, nella sequenza probabilmente più toccante: quella in cui il fatidico giorno del compleanno, trascorso nello sbandato giro a vuoto di una fuga dalle istituzioni che proprio Riccardo ha messo in atto, gli procura un maritozzo con la panna per sopperire alla mancanza di una torta di compleanno e utilizza la fiamma dell’accendino alla maniera di una candelina. Il dettaglio di una piccola luce intorno alla macerie di un substrato dove non ci sono le premesse di una (ri) partenza, ma che rappresenta anche l’accensione di un nuovo corso in quell’altrove che Riccardo ha sempre sdegnosamente allontanato.

La rappresentazione della strenua lotta per rivendicare una sopravvivenza dignitosa, in un mondo mappato sempre più dai confini della marginalità e dell’esclusione, evoca ovviamente i personaggi di Luc e Jean Pierre Dardenne (si pensi in particolare al dinamismo rabbioso del giovane protagonista, sciolto dal pianto e dalla furia di un abbraccio, de Il ragazzo con la bicicletta); certo, non si può pretendere lo stesso affondo lucido ed emozionante, lo stare sotto l’epidermide delle realtà, mantenendone un costante, situato pensiero critico. Si intuisce però , come già in Una madre di Stefano Chiantini (dov’era evidente il richiamo a Rosetta), la volontà di seguire una traccia, di riposizionare un punto di vista all’altezza di un disagio tangibile e strabordante nella fisicità di corpi attoriali, in particolare quello di Zackari Delmas/Riccardo, che lasciano un’ impronta e che quei luoghi del disagio li sanno abitare e animare.

Poi è chiaro che qualsiasi sguardo rivolto in macchina di qualsiasi ragazzino “difficile” e in qualsiasi epoca della storia è sempre Antoine Doinel nel finale de I quattrocento colpi che continua a guardarci e a interrogarci. Anche se stavolta non c’è il mare a fare da controcampo a quell’appello accorato…  Come a dire che la poesia e l’immaginario non si trovano più davanti i nostri occhi, ma dobbiamo andare a riappropriarcene nel fuoricampo di un’ inquadratura.

In sala dal 14 maggio 2025.


Il mio compleanno Regia: Christian Filippi; sceneggiatura: Christian Filippi, Anita Otto; fotografia: Matteo Vieille Rivara; montaggio: Tommaso Marchesi; musica: Meganoidi; interpreti: Zackari Delmas, Silvia D’Amico, Giulia Galassi, Simone Liberati, Federico Pacifici, Nicolò Medori, Carlo De Ruggieri; produzione: Schicchera Production, La Biennale di Venezia; origine: Italia, 2024; durata: 92’; distribuzione: Cattive Produzioni.

Foto: Matteo Casilli

 

 

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