Sarebbe ingrato cercare di ridurre o di contenere l’esperienza della lettura di So cosa hai fatto – Scenari, pratiche e sentimenti dell’horror moderno, l’ultimo libro di Pier Maria Bocchi, dentro la categoria esangue e asettica di un saggio sulla possibile storia di un cinema, quello horror appunto. Interrogandosi su un genere che, per la pulsione scopica che lo attraversa, può essere ricondotto alla pratica stessa del vedere e del filmare, l’autore, fin dalla scelta del titolo, annuncia che andrà a confrontarsi con qualcosa che lo riguarda e che in fondo ci riguarda (come appassionati, studiosi, cultori del cinema tout court). So cosa hai fatto è dunque è una citazione che non interessa tanto per il film a cui fa riferimento – diretto nel 1997 da Jim Gillespie, primo episodio di una trilogia che in seguito diventerà anche una serie tv – inscritto in un periodo storico, gli anni’90, considerato da Bocchi, nel migliore dei casi, di transizione e nel peggiore come una versione “pavida, incolore e anemica” dell’opulenta e voluttuosa stagione dei precedenti ’80: un richiamo diretto e inequivocabile che, nell’introduzione, l’autore rivolge all’horror in quanto incarnazione di un’alterità, un interlocutore, “un compagno fidato di viaggio, partner leale, maledizione”, del quale ha colto, percepito ed elaborato tutte le manifestazioni e le sfaccettature, mettendone in questo volume, nero su bianco, prospettive e posizionamenti argomentati per ragione e sentimento. E c’è un ulteriore passaggio dalla seconda alla prima persona, che annuncia la consapevolezza della portata di ciò che lo stesso Bocchi ha fatto in ricerca, reperimento e visione di opere rare e perdute, spesso ridotte al carpe diem del passaggio nella sala di un festival o alla clandestinità di un vhs pirata, per poter preservare il gusto e la filologia della versione integrale. Questo processo di restituzione di una memoria privata e collettiva, che cambia il segno della scrittura dallo stampatello della dimensione storico-riflessiva al corsivo del ricordo personale, non riporta nel suo criterio speculativo ed analitico i titoli emblematici del genere, che tutti (ri)conoscono, anche coloro che non chiedono altro che una fruizione strumentale ad uno spavento occasionale.
Una volta individuate delle macro aree, oppure delle correnti, dentro le quali trovare degli scenari ora generativi ora derivativi, la selezione dei film si rivolge nella maggior parte dei casi a ciò che è circolato o chi si è visto poco in relazione soprattutto al valore intrinseco di intercettazione e messa in abisso del disagio sociale e esistenziale, declinato a seconda dei decenni (necessaria catalogazione generazionale). Sarebbe impossibile farne qui una sintesi tanta la ricchezza e generosità della proposta, se ne farà solo un accenno a partire dall’incipit; un mood che trova e affonda nella prima epoca cronologicamente presa in considerazione, quella di Reagan e della sua “reaganomics”, un ‘agenda economica e politica che si estende nel corso degli anni ottanta sul culto edonistico di (D)Io, patria e consumo e che trova immediatamente il suo corrispettivo making off: così Effects di Dusty Nelson, sintomaticamente realizzato nel 1980 , ne apre le danze, secondo l’indice di questa mappatura, con il suo andare al sodo di certe questioni: la storia, piuttosto scarna dal punto di vista della trama e assai limitata nel budget produttivo, è quella di un gruppo di giovani filmmaker inizialmente alla prese con la realizzazione di un film di sesso e violenza, e poi incastrati nel gioco al massacro di uno snuff movie. Ma è questa spirale delimitata per altro da un topos logistico e geografico-la casa isolata in campagna-ad essere per Bocchi il controcampo anticipatore di un’epoca allo start, “quella della me generation, del culto del sé, del carrierismo e della body culture”, la sporcatura e la rozzezza del B Movie contro la levigatezza e la raffinatezza bressoniana dell’American Gigolò di Paul Schrader. L’apertura a un to be continued… pieno di effetti perturbanti e inaspettati, e a una sistematica riformulazione di questioni fumanti, come ad esempio quella del gender, individuata in diverse declinazioni e in anticipo sui tempi attraverso un’ intelligente lettura da una prospettiva contemporanea (termine spesso utilizzato e di fatto cruciale per inquadrare il senso e far risuonare la vibrazione di questo cinema): ecco allora menzionati dei titoli anch’essi piuttosto poco conosciuti come l’inglese The Appointment di Lindsday C. Vickers, con il crollo mortale della figura paterna/patriarcale dentro il sistema famiglia del new deal carrieristico, o l’americano Sleepway Camp di Robert Hiltzik, che prende di petto il concetto di genderfucker nelle sembianze del corpo mutevole e slittante tra maschile e femminile di un serial killer prepuberale. E, assieme ai ruoli socio familiari e ai corpi, anche lo spazio, nello specifico lo spazio urbano metropolitano, diventa precario terreno di aggressione (Gli occhi dello sconosciuto di Ken Wiederhorn), “…è qui, nella genericità della metropoli e dei suoi abitanti, che le nuove paure spezzano l’apparente garanzia di tranquillità per il singolo”.
Ma forse quello che turba di più di questi precisi e immersivi affondi nelle trasformazioni estetiche e tematiche di quello che è prima di tutto un modo di vedere e di sentire la realtà interiore ed esteriore è l’ibridazione che Bocchi compie con il (proprio) coming of age di una differenza di desiderio e di pensiero. Il corpus di una simile condizione transitoria e assieme affermativa del sé viene toccato, a detta di chi scrive, con la forza dell’evocazione (non nella sua accezione esoterica e trascendente, ma come vero e processo mnemonico, per di più su un materiale audiovisivo rimosso o segretato) di tre film focalizzati ciascuno su degli aspetti specifici, ma con lo stessa profondità di livello pulsionale e psichico: Nekromantik (1988) di Jörg Buttgereit, nel quale la basica e nucleare necessità espressiva di mettere in scena la deriva terminale e disperata dell’ultimo piacere sopravvissuto agli anni dell’edonismo, quello della necrofilia virata da un assoluto romantico, si traduce anche concretamente nella modalità produttiva di un quasi home movie; un’opera realizzata con un’ attitudine semi amatoriale, guidata dal nume tutelare di una passione cinefila che anticipa il tarantiniano sdoganamento verso l’autorialità post moderna, e distribuita per le vie di un mercato nero che crea forme di appartenenza, riconoscimento e appagamento in qualcosa di veramente hardcore, come richiedono i collezionisti nomadi per questo esiliato territorio di visioni. E Nekromantik, che parla del ripiegamento onanistico sempre più estremo di un collezionista di (Love) e Human Remains, rimanda ad una figura quanto mai scomparsa e fantasmatica, quella di Fabio Salerno e del suo primo lungometraggio, semi visibile e poi anch’esso scomparso: Notte fonda(1991) con quel titolo emblematico e dichiarato, è visto da Bocchi come il segno della crisi, la cesura, e dunque l’apertura (nonostante il clima di disfacimento psicosensoriale) del “fai-da-te amatoriale” come “esercizio autarchico di una passione cinefila e il solo ponte possibile tra un passato ormai sepolto e un futuro ancora da definire”. Cosi l’alter ego di Salerno, Paolo, fumettista risucchiato, suo malgrado, nell’inferno senza fondo dell’altra dimensione ( con le esigenze dello stringato budget, ancora loro, a costruire un immaginario implicito ed evocato, come sottolinea lo stesso Bocchi) è il doppio del regista /autore nel suo esilio auto ed etero imposto, nell’assenza di un società che ha desistito completamente alla sua funzione di comunità supportante, in favore della distanziane idolatria: “La realtà in cui si muove Paolo è la stessa di Salerno, una società che lusinga il soggetto(sul tavolo da lavoro di Paolo è perfettamente visibile una copia del fumetto Dylan Dog, all’epoca già famosissimo e cult per innumerevoli lettori) e che lo abbonda a se stesso”. E l’essere sopravvissuti- al contrario di Salerno, morto suicida nel 1993 a 28 anni- alla visione di quell’ abisso- sembra che consenta anche al Bocchi individuo e critico cinematografico di continuare a confrontarsi nella stagione adulta della vita con la rigorosa e meticolosa analisi del cinema horror, contribuendone con il pensiero a spostarne gli orizzonti in punti sempre più inaspettati di una cartografia che vuole orientare e spiazzare.
A proposito di spiazzamenti e disorientamenti, il terzo titolo da citare in questo personale percorso adoperato per l’interpretazione del testo di Bocchi ha a che fare direttamente con un corpo esistenziale ed attoriale: quello di Mark Patton, protagonista maschile (un’anomalia nella storia della saga) di Nightmare 2-La rivincita di Jack Sholder (1985); una storia raccontata in un documentario biografico Scream, Queen! My Nightmare on Elm Street di Roman Chimienti e Tyler Jensen: la storia di quel giovanissimo interprete, già passato per il corpo per transizione bullizzato e umiliato di Karen Black in Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982) di Robert Altman, e della sua presenza in quel film, è per Bocchi il velamento e poi il disvelamento a posteriori-che non era stata colto dal Pier Maria quattordicenne quando lo vide in sala – di una vibrante sensibilità queer; la performance di Patton, omosessuale non dichiarato costretto a nascondersi dal mainstream statunitense conservatore e ipocrita degli anni ’80, ne aveva lasciato un solco profondo e carnale sulle immagini e soprattutto suoi suoni (indimenticabile l’acutezza delle sue urla). Una sovrapposizione personaggio/attore tanto coincidente da contrassegnare a fuoco la percezione di Mark e di negargli conseguentemente l’esplorazione di altre possibilità interpretative. E la riflessione di Bocchi va ancora una volta oltre, individuando in quello stigma un’emanazione dell’orrore, “Il long-COVID del sentimento di un genere di polso, che a volte genera una prevaricazione inaggirabile”. E, ancora, “ Scream Queen! My Nightmare on Elm Street certifica la persistenza dell’horror come impronta, segno indelebile, marchio”. Per chiudere con una considerazione illuminante e lapidaria: “L’horror è una forma mentis. Non esistono altri generi altrettanto tirannici e possessivi…L’horror è esclusività, è dittatoriale, è un padre padrone…è un’epidemia che non ci liberi e da cui non siamo capaci di guarire. Non c’è medicinale. Non l’hanno ancora inventato”.
Ci permettiamo di aggiungere che nel riconoscersi dentro questa sublime tirannia, la lettura di questo libro è anche un esercizio di confrontazione con il proprio sentire e il proprio pensare per chi, come il sottoscritto, si indentifica nell’aperta definizione di queer, ma anche per coloro i quali si identifichino in un altro qualsivoglia, mutante flusso nominale. Certi che sarà l’horror a tagliarne e ricucirne i confini e le estensioni.
So cosa hai fatto – Scenari, pratiche e sentimenti dell’horror moderno; autore: Pier Maria Bocchi; editore: Lindau; anno edizione: 2024; pagine: 304 p.; ISBN: 9791255841609; prezzo: 21,85 Euro.
