Il corpo, la nuca, le mani di Alexandr Sokurov, ripiegato a scrivere sopra un foglio frammenti di pensiero che si conficcano dentro la carta/carne/cuore e si traducono sullo schermo come espanse immagini della Storia; intermezzi che ne (contr)appuntano i fatti salienti di almeno quattro decenni, quelli che hanno attraversato la Russia fu URSS dalla fine degli anni ’50 agli albori degli anni ’90, dalle tensioni proto-nucleari della guerra fredda fino al crollo del muro di Berlino e allo sgretolamento dell’ utopia comunista e delle sue macroscopiche contraddizioni. Per penetrare dentro quest’opera fluviale di cinque ore, tra la perfetta orchestrazione di ogni input visivo e grafico e la digressione debordante di un concretissimo lirismo, è importante rimanere sul Leitmotiv di quella figura ripresa di spalle, e sul particolare della punta della sua penna. Il regista ci prepara e ci introduce a un attraversamento del passato recente che non vuole essere esaustivo, didascalico, esplicativo di avvenimenti collegati solo dalla necessità di coerenza e di compattezza del logos, della ragione che elabora e chiude dentro un senso o peggio ancora una spiegazione. La prospettiva dalla quale si guarda e si viene riguardati dalla nostra storia perde il connotato maiuscolo e assolutista di magniloquenza, epica e retorica ( caratteristiche care ai cinegiornali di propaganda sovietica) e acquista una sensazione di inquietudine, di spaesamento spazio-temporale da riorganizzare, elaborazione di una cronologia che si è persa e che si ricerca nella propria memoria.
E da questa partenza così posizionata per Sokurov è importante, ancora una volta dopo la straordinaria sperimentazione sul rapporto tra immaginario, animazione e iconografia storica in Fairytale: una fiaba (2022), rivolgersi all’ipertestualità della tecnologia digitale che permette di mettere in una relazione composta di assonanze e dissonanze lo scritto con il filmato. “Il taccuino del regista”, annuncia l’eloquente titolo, è quello che viene aperto e mostrato nella forma di una presa di coscienza e di testimonianza alla quale sono dati un contenitore e una struttura. Dall’interno dello studio di Sokurov, dalla sua questione privata, si passa a veder scorrere lungo una linea del tempo posta sul margine destro dello schermo le date di un periodo circoscritto, dal 1957 al 1991, a cui corrisponde un materiale di repertorio derivante prevalentemente dargli archivi del Partito, dunque improntato all’esaltazione e all’edulcorazione della società russa vista come espressione di solidità e grandezza, di capacità di integrare la dimensione contadina con quella dell’innovazione tecnologica e urbanistica, di riconoscere il singolo solo nella sua funzione di entità collettiva che porta alla realizzazione di uno Stato patriarca e onnisciente, completamente soddisfatto e compiuto in sé stesso.
La capacità di decostruire e di aprire ad altre suggestioni e riflessioni anche e soprattutto quel flusso audiovisivo concepito con la precisa funzione di offrire una versione rassicurante e manipolata della realtà viene qui realizzata con un procedimento, se vogliamo, speculare a quello della messa in abisso: la rappresentazione di ciò che accadeva nel mondo contemporaneamente alla lunga, muscolare e tesa era comandata da Leonid Brenznev, che abbraccia la maggior parte del segmento temporale preso in considerazione, dal ’64 al ’82, non è infatti nascosta tra le maglie che collegano un’immagine all’altra o metaforizzata in una sottotraccia del racconto principale, ma è emersa e sovrascritta graficamente sulle immagini stesse che possiedono un sonoro sottotitolato, aumentando l’effetto di straniamento tra ciò che è stato detto e quello che viene riportato, con delle linee confluenti tra di loro per tematiche e argomenti ricorrenti, quasi ai limiti dell’ossessività, da parte del cineasta russo. In particolare la citazione di disastri aerei, terremoti e altri incidenti causati da calamità naturali o generati da macchinari e altri mezzi di trasporto, avvenuti in vari paesi e in vari momenti, quasi a voler sostenere, con l’utilizzo letterale di cartelli virati in alcuni casi in un effetto pellicola, la percezione ineluttabile di una simbolica deflagrazione della terra e degli esseri umani; uno spossamento così distante dalla tenuta salda e inespugnabile che l’Unione Sovietica voleva offrire come narrazione di se stessa all’Occidente. Uno stato delle cose sul quale si innestano le tensioni terminali della guerra fredda e del riarmo o del disarmo atomico, con la minaccia di quella bomba capace di far saltare, dall’una e dall’altra parte del pianeta ogni tipo di polarizzazione e schema. Ulteriore spazio di lettura è dato alla menzione di dissidenti, esuli, perseguitati, condannati e talvolta giustiziati (molto citati i casi di censura intellettuale e letteraria rappresentati da Boris Pasternak e Vladimir Nabokov), dichiarando una risonanza avvertita in modo fortemente personale da Sokurov nei confronti del grande compositore Dimitrij Sostakovic, che comunque non abbandonò mai la Russia, pur volendo mantenere la propria autonomia e libertà creativa, come del reso lo stesso autore de L’ Arca Russa ha fatto e continua a fare.

E ad alludere a una possibile identificazione sono proprio i tormenti e le contraddizioni di Sostakovic, fissati sotto pelle dalla durata allungata di una ripresa in rallenti che non eternizza la figura dell’artista ma segna un istante di sospensione spazio-temporale, e la sottolineatura di una vicinanza affettiva e spirituale, da parte dell’Alexandr , ora uomo e prima ragazzo, cresciuto con la musica classica ascoltata alla radio pubblica sovietica. Eppure, nell’elenco di personalità nate o morte in un determinato anno, come la segnalazione di film usciti e di album pubblicati, ci sono anche i nomi delle star del cinema, del rock e del pop di quell’industria musicale e cinematografica occidentale che è stata gelida, rifiutata nemesi sulla piazza pubblica della fedeltà ideologica e bruciante, privato desiderio nelle stanze private della propria giovinezza.
La musica si fa così altro tema portante di questo excursus in progressiva e pasoliniana soggettiva libera indiretta, dentro la quale ogni fotogramma, nel corso del tempo e nell’avvicinarsi alla cruciale svolta berlinese del 9 novembre 1989, diventa l’espressione singolare di una percezione che appartiene al regista e che vi porta dentro gli umori e i sentimenti di un’alternanza tra entusiasmo e cautela, spontaneità e manipolazione, omissione e svelamento. Trattandosi di un lavoro di montaggio, la scelta tra la quantità di archivi selezionati appare ispirata e pensata fino all’ultimo dettaglio: gli sguardi, i sorrisi, i volti e i gesti ordinari e straordinari di donne, uomini e bambini sono decontestualizzati dalla circolarità del sistema comunicativo ufficiale e formale, che cercava un modo di mostrare la vita per imporre, anche con la sublimazione, un modo di vivere. Incastonati in una partitura musicale fatta di performance prese da film, spettacoli e balletti, esecuzioni di cantanti famose, o semplicemente, di ragazzini che suonano la chitarra, quei compagni e quelle compagne, cittadini e cittadine, esistono al di là tanto del ruolo sociale che ricoprono quanto dello sperduto anonimato di un volto nella folla. Rappresentano l’attenzione e la cura di Sokurov per l’umano inteso come prossimità dello sguardo, una volta calati gli orpelli, i trionfalismi e le bandiere.
Elementi sempre più rivelati fino al sorgere, alla fine degli anni ’80, di un nuovo sguardo in grado di filmare in essenzialità anche la miseria, la povertà, i soldati amputati e crollati sotto il peso delle guerre, il degrado esasperante, così come i moti dal basso di un cambiamento in corso, non più negabile e oscurabile, traducendo la condotta etica in pratica estetica, l’indignazione civile in denuncia mediale. Laddove il dispositivo vertoviano della macchina da presa viene tirato fuori e anch’esso sovrascritto (creando un simbolico ponte teorico con il concetto, per quanto parafrasato, di camera- stylo di Alexandr Astruc) nei contorni della cornice dentro la quale Sokurov proietta ciò che ha visto e ciò che ha letto; qualcosa che ha trovato già esistente e documentato, sia in quanto formato visivo che come informazione e dato/data di fatto, e che ha filtrato per il tramite del proprio vissuto sul doppio piano dell’analisi lucida e dell’ afflato poetico. Un esperito che prevede anche una sorta di FlashForward applicato al passato, il preludio di un futuro di cupezza e di solitudine, senza più la forza delle parole e l’impulso immaginifico della musica. Uno scacco politico e storico riassunto in due sequenze: il parlamento russo in piedi, silenzioso e inerme, durante e dopo la caduta del muro, di fronte ai tumulti di una realtà alla quale non sa dare più principi, orizzonti, soli dell’avvenire; I dubbi e i tormenti di un Boris Yeltsin chiuso nella camera oscura di una coscienza ridotta al grado zero. Il sigillo perfetto all’epigrafe tombale composta dalla grafia di Sokurov.
“Sono felice che i nostri cari siano morti prima di noi…”
Zapisnaja knizka rezisera; regia, sceneggiatura e fotografia: Aleksandr Sokurov; montaggio: Aleksandr Sokurov, Juri Cerusico; musiche: Andrey Sigle; produzione: Example of Intonation Foundation, Revolver, Bielle Re; origine: Italia, Russia, 2025; durata: 305 minuti.
