Zvanì – il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli di Giuseppe Piccioni

  • Voto
3


A un certo punto  del film di Giuseppe Piccioni (è “solamente” il dodicesimo nell’arco di quarant’anni), Giovanni Pascoli (Federico Cesari), parlando del suo maestro e (in parte) mallevadore Giosuè Carducci dice con fierezza a un amico e compagno di studi che la sua opera verrà letta ancora quando di Carducci non si saprà più nulla. Poco più avanti Pascoli, a Roma, incontra Gabriele d’Annunzio (Fausto Paravidino), di otto anni più giovane (il primo del 1855, il secondo del 1863), e il (futuro) Vate afferma che dopo Petrarca non c’è (stato) in Italia un poeta più importante di lui, di Pascoli. Lo spettatore, di media cultura, resta un po’ interdetto: è davvero così? Siamo davvero in presenza di uno dei grandissimi della poesia italiana? Non lo so e non tocca a me stabilirlo. Certo è che, al più tardi, dopo aver visto questo film, chissà, magari viene la curiosità di andare a rileggere un poeta che la gran parte di noi ha letto a scuola (La cavalla storna, X agosto, Lavandare, L’aquilone, etc.la teoria del “fanciullino”) e poi mai più – e  se così fosse, già questo sarebbe un merito del film, prodotto da RaiFiction,  e mostrato a Venezia, un po’ in sordina, nelle Giornate degli Autori (sezione Confronti). Un film per la TV, dunque, che AcademyTwo ora distribuisce in sala

Pascoli muore a Bologna nel 1912, e il film è incorniciato dal viaggio della sua bara spoglia che viene riportata col treno fino a Castelvecchio in Garfagnana nel comune di Barga, quella frazione che adesso si chiama appunto Castelvecchio Pascoli. Intorno a questa cornice,  seguendo il percorso del treno a cui si torna più volte con personaggi vari (parenti, studenti, ammiratori) saliti a bordo, il  film racconta, si può dire, tutta la vita di Pascoli, dal trauma primario che è l’uccisione del padre, da cui, in definitiva, il futuro poeta non si è mai più ripreso,  allo studio liceale fra mille difficoltà, dalle simpatie anarco-socialiste alla laurea in filologia classica all’Alma Mater (con Carducci relatore, appunto), dai pellegrinaggi in giro per l’Italia a insegnare latino e greco (si comincia da Matera), alla profonda, marcata infelicità individuale, tanto che nel corso di tutto il film non si assiste neanche lontanamente all’accenno di una relazione sentimentale, di una passione, di un’attrazione. Roba da far sembrare Giacomo Leopardi un Casanova, un Don Giovanni.

Credo che non sia un caso la scelta del titolo: Zvanì è l’abbreviazione intima (e romagnola!) di Giovanni; quanto al romanzo famigliare, penso che non sia sbagliato leggere questo sintagma e questa definizione di genere in un’ottica eminentemente patologica: la famiglia condiziona in modo definitivo la vita di Pascoli, al punto da non permettergli di dar vita a un qualsivoglia, diverso, investimento libidico che esuli dalla famiglia stessa. Prova ne sia che non appena può disporre di un po’ di denaro, il protagonista decide di chiamare a sé le due sorelle sopravvissute, Ida (Liliana Bottone) e Mariù (Benedetta Porcaroli), di vivere insieme a loro per poi mai più separarsene (in realtà verso la fine qualcosa accade, ma niente spoiler), dando vita a una relazione esclusiva e oppressiva – le sorelle adorano e accudiscono il sempre più celebre fratello – che, alla fine, non fa bene a nessuno.

Come accade non di rado nei biopic dedicati a scrittori, il film presenta un evidente difetto: non riesce a nascondere la sua natura didascalica e informativa e televisiva (prime time di Rai1, dove arriverà tra poco) che attinge al repertorio più famoso del poeta, inducendo inevitabilmente lo spettatore – magari non più giovanissimo -a riprendere dimestichezza con testi conosciuti, recitati con voce off dal poeta stesso; qui le poesie – non voglio dire: un po’ a caso – sono davvero tante, troppe. Un secondo difetto – che, per carità sarà dovuto alla sostanziale tristezza del percorso biografico di Pascoli – è la mono-tonia del film, è proprio un’unica tonalità quella che ci viene offerta, una tonalità mesta a cui contribuisce una gamma cromatica, anticheggiante e scabra, un po’ sempre uguale (predomina il marrone), ma anche un uso smodato della musica extradiegetica, anch’essa improntata a una marcata tristezza. Possibile che Pascoli in tutta la sua vita non abbia riso neanche una volta? Anche qui: Leopardi (si pensi, per restare al cinema, a Il giovane favoloso di Mario Martone, by the way a più riprese, guardando il film, mi sono trovato a notare quanto Federico Cesari, nella fisiognomica e a tratti anche nella recitazione, assomigli a Elio Germano) sembra, al confronto, un mattacchione.

                     Federico Cesari

Forse l’aspetto più convincente di tutto il film è la scelta di dar vita – ed è ciò che distanzia il film da un tipico prodotto in stile televisivo e che ne autorizza almeno in parte la distribuzione in sala – a numerosi effetti di straniamento: da un lato con diversi personaggi che parlano allo spettatore guardando in macchina, come se fossero degli intervistati e dunque come se stessimo assistendo a un documentario, dall’altro con “ritratti” muti in guisa di fotografie anticate.

Dimenticavo: la sceneggiatura di questo film, un po’ noioso ma onesto, è niente meno che di Sandro Petraglia (1947) che ha scritto almeno un’ottantina di film, metà dei quali per la televisione, e la dimestichezza con entrambi i generi – cinema e televisione – guardando questo film si sente, eccome.

In sala dal 2 ottobre 2025.


Zvanì – il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli – Regia: Giuseppe Piccioni; sceneggiatura: Sandro Petraglia, con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori e Eleonora Bordi; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Federico Cesari (Pascoli), Mariù (Benedetta Porcaroli), Ida (Liliana Bottone),  Fausto Paravidini (Gabriele D’Annunzio), Davide Lorino (Giosuè Carducci), Riccardo Scamarcio (Cacciaguerra), Margherita Buy (Emma Corcos); produzione: RaiFiction, Memo; origine: Italia, 2025; durata:  110 minuti; distribuzione: Academy Two.

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