Perugia Social Film Festival XI° – Edizione (26 settembre- 8 ottobre 2025): The bare faced clown di Camilo Cavalcante (Concorso)

La ricerca di un proprio posto nel mondo, quando il mondo è sull’orlo di un vorticoso abisso, sembra essere il movimento che conduce il corpo e il sentimento di  Flávio tra le strade di un Brasile disorientato tra tradizione socio-culturale, l’audacia del gesto artistico e la violenza della corruzione politica. Con The bare faced clown, ovvero il clown dalla faccia pulita, il regista Camilo Cavalcante realizza dunque, tra messa in scena e documentario, un film riflesso e metafora della condizione di un intero paese colto in un preciso, cruciale segmento temporale della propria storia; e lo fa attraverso l’esplorazione dello spazio intimo  tra desiderio e impotenza di un individuo. La prima parte ci introduce negli eventi convulsi che portarono alla richiesta di impeachment e di conseguente destituzione, da parte in particolare dell’estrema destra capeggiata da Jair Bolsonaro, della presidente in carica Dilma Rousseff, eletta tra le file progressiste e socialiste del Partito dei Lavoratori che sarebbe tornato poi a guidare il paese con il secondo mandato di Lula. Questo aggiornamento in presa diretta dei fatti del 2016, anno in cui Rousseff cadde a causa di quello che molti additarono come un colpo di stato architettato dalle frange più populiste e conservatrici del parlamento, è mediata nella sua ricostruzione dalla prospettiva soggettiva di un’abitazione privata e di uno schermo televisivo (in un’epoca appena antecedente a quella pervasiva della comunicazione social network): tornato momentaneamente (?)  a casa della madre dopo la crisi del suo matrimonio, Flávio osserva  assieme all’anziana donna le arringhe pro o contro dei capigruppo parlamentari, tra il silenzio sgomento e il commento tagliente (a proposito di Bolsonaro si rimpallano un eloquente scambio:  “Questo è un cazzone”, “E’ un criminale” ). È una sequenza che parla, ancora e soprattutto adesso, di quanto la propaganda, la manipolazione delle informazioni e il controllo della scena mediatica pubblica possano invadere e condizionare le esistenze dei singoli, le loro scelte e le relative conseguenze tra resistenza e resa, intensità e malinconia.

E Flávio amplifica questa condizione nella precarietà di ciò che vorrebbe fare, ovvero mettere in scena uno spettacolo ispirato a La poetica della rêverie del filosofo francese Gaston Bachelard: ma sembra esseri più un luogo nel quale poter portare la parola che evoca lo spazio dell’immaginazione, delle fantasticheria, del sogno, nel segno della delicatezza e della trasparenza. Flávio prova il suo monologo in abitazioni diroccate, fatiscenti, dai muri crepati. Non gli resta che portare frammenti di quel testo, di quello che ne può sopravvivere, in mezzo alle vie dei mercati, dei passanti, della gente seduta ai tavolini del bar. Cercando di mettere in luce il carattere tragicomico e patetico degli essere umani, di cui la clowneria è la forma di racconto più significativa, per altro svelata da ogni artificio e convenzione, in quanto Flávio si presenta al pubblico senza trucco, con la faccia pulita appunto. E Cavalcante lo segue con un senso di partecipazione e di affetto per le strade della cittadina di Recife, da dove entrambi provengono, assumendone e condividendone tutti gli umori, le tenerezze e le dolenze nei confronti di un microcosmo che diviene man mano più fantasmatico, desolante, contenitore subito di un nuovo incubo della Storia. La necessità di un contatto e di una vicinanza, recuperati dopo la frattura, restano comunque anche in mezzo al caos e all’incertezza di quei giorni di ammutinamento, quando Flavio, durante una manifestazione di protesta, raggiunge  in mezzo alla folla la compagna da cui si è separato e, nell’intesa struggente dell’abbraccio che si scambiano, si riconnette a qualcosa di familiare e autentico. Non è importante avere informazioni su come sia andata quella relazione, il peso specifico dei volti, che compiangono la fine della loro storia e annunciano inoltre la fine di una possibilità di svolta per la giustizia sociale e i diritti civili in un paese già abusato e martoriato da dittature e colonialismo come il Brasile.

Così Bolsonaro, da minaccioso propagandista sbraitante dal pulpito della televisione, diventa incubo deformato per Flavio che ne sogna l’ascesa al potere tra slogan e pose aggressive, dittatoriale esaltazione del culto di una forza degenerata in suprematismo, la costruzione istantanea di un’efferata mitologia del super uomo per la quale (D)Io è sopra ogni cosa. Una figura che potrebbe essere accostata, per analogia e non per statura, ai dittatori rappresentati da Aleksandr Sokurov nella sua audace fantasia animata, Fairtyle: una fiaba, dalla quale Cavalcante sembra riprendere alcuni tratti stilistici nella sequenza dell’incubo di Flavio: partendo dalle immagini di repertorio che ne hanno accompagnato  e testimoniato l’escalation al potere, ne distorce con effetti visivi e sonori lo statuto realista fino ad farne emergere il sottotesto, invero neanche troppo nascosto, di virulenza machista, di permanente minaccia. Un assalto fin dentro gli stadi più profondi dell’inconscio, che spingeranno Flávio a un brusco risveglio. È  la realtà che gli si presenta davanti è diventata nel frattempo quella limitante e restringente di uno schermo o di uno smartphone, uniche finestre sul di fuori durante la pandemia del Covid, nel quale far veicolare l’ambizione dei propri contenuti (questa volta addirittura Antonin Artaud). Anche il quadro introflesso, regressivo e costretto della convivenza con la madre appare come uno stato senza via di fuga. In una scena che, per certi versi, ricorda il serrato confronto tra Fassbinder e la madre sul rapporto tra terrorismo e Stato democratico nell’episodio di Germania in autunno, Flávio confronta le sue posizioni, polemiche contro l’assetto governativo che si va costituendo con l’imposizione e l’inganno, con quelle di una persona che sceglie di credere acriticamente e qualunquisticamente alle notizie ufficiali. C’è però da sottolineare la differenza tra il distacco e la freddezza borghesi di mamma Fassbinder e l’ingenuità popolare della madre di Flávio, descritta come una matriarca buona che dispensa dolci e premure ai bambini del quartiere in cui vivono. Con lei qualsiasi divergenza o differenza di punto di vista, non può che concludersi non con la razionale presa di coscienza di una distanza fisica e valoriale incolmabile , ma con la grazia riconciliante di un passo di danza su un refrain di Roberto Carlos (c’è nel film un certo, costante rischio di passatismo) e di un altro braccio che compensa  la circolarità del reciproco prendersi cura. Da quell’appartamento/culla/ prigione però Cavalcante rimuove e ridireziona la traiettoria del suo protagonista, nell’orizzontalità di un carrello che apre sulla strada, con la luminosa volontà di riappropriarsi delle proprie concretissime utopie.


The bare faced clown (O Palhaço de Cara Limpa)  Regia: Camilo Cavalcante; sceneggiatura: Camilo Cavalcante, Flávio Renovatto, Maria da Guia de Oliveira da Silva; interpreti: Flávio Renovatto, Maria da Guia de Oliveira da Silva; fotografia: Luis Henrique Leal, Josivan Rodrigues; montaggio: Caio Zatti; musica: Amaro Freitas; produzione: Aurora Cinema; origine: Brasile, 2024; durata: 80 minuti.

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