Festival del Cinema Tedesco: The Ordinaries di Sophie Linnenbaum

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Da Cineuropa

Presentato l’anno scorso al Filmfest München e al Festival di Karlovy Vary oltre che ad altre manifestazioni, ovunque sia stato presentato The Ordinaries, il primo lungometraggio della regista tedesca Sophie Linnenbaum (1986), ha riscosso un’attenzione che va ben oltre quella riservata normalmente a talentuose debuttanti. Con studi di psicologia alle spalle, Linnenbaum si è messa a studiare a una delle principali scuole di cinema tedesche, quella di Babelsberg (fondata all’epoca della DDR) e a tutt’oggi una delle più originali fucine di nuovi talenti. E che Linnenbaum di talento ne avesse lo dimostrava nel 2017 un cortometraggio di soli 8 minuti intitolato Pix in cui la regista raccontava la vita di un cittadino medio dalla nascita alla morte attraverso una serie di fotografie/fermo-immagine, narrativizzati in modo fortemente antirealista e paradossale. Quel cortometraggio aveva ottenuto nel 2017 il premio come miglior cortometraggio tedesco, testimonianza di un’acuta riflessione su realtà e finzionalizzazione mediale. Ma si sa: un conto sono i cortometraggi un conto i lungometraggi, The Ordinaries di minuti ne conta 119 e si sentono tutti.

Ma torniamo per un attimo a Babelsberg e ricordiamo che fra i numerosi riferimenti intertestuali presenti soprattutto nella prima parte del film, ve ne sono tantissimi risalenti al cinema (per lo più popolare, soprattutto musical) della DEFA, la casa di produzione nazionale e nazionalizzata della DDR.

I riferimenti intertestuali sono intimamente connessi con il tema (al tempo stesso setting) del film che è, detto in parole povere, una specie di allegoria distopica “ambientata” nel mondo del cinema. Qui la società è divisa in tre livelli rigorosamente gerarchici: vi sono i protagonisti, i comprimari e gli outtakes, questi ultimi autentici derelitti che si aggirano come anime in pena oppure vengono proprio fatti sparire, soprattutto laddove non si arrendano alla loro marginalità. La vicenda è raccontata dalla prospettiva di Paula (Fine Sendel) una quindicenne a cui è stato riservato l’onore di frequentare l’accademia che la dovrà laureare protagonista, facendola dunque accedere al grado più alto della società. L’onore di poter aspirare a tanto è dovuto, così ci dice Paula fin dall’inizio, al padre, a sua volta in passato un protagonista, anche se di lui si sono perse le tracce. Morto? Scomparso? Segregato? La madre di Paula (interpretata con apprezzabile minimalismo dall’eccellente Jule Böwe, una delle grandi star dei palcoscenici teatrali berlinesi) invece non è mai uscita dai ristretti confini del ruolo di comprimaria, tant’è che ripete sempre, come un automa che ha ricevuto in dotazione un numero limitato di battute, le stesse identiche parole. In questo universo concentrazionario tutto basato su delazione, integrazione ed esclusione, già i matrimoni misti sono sospetti – e questo, visto che siamo in Germania o quanto meno in un film tedesco, non può non ricordare le vicende più tremende della propria Storia nazionale, quando bastava non avere tutti i quarti di sangue ariano per rischiare di finire in un campo di concentramento.
Il problema di Paula – figlia, appunto, di un matrimonio misto –  è la paura folle di non superare l’esame finale: a fronte di eccellenti prestazioni attoriali, Paula non riesce a cantare bene perché il cuore/pacemaker di cui sono dotati gli individui non riesce a comunicarle le emozioni corrispondenti alla musica, quindi quando Paula canta, finisce per stonare, ciò che naturalmente viene visto dalle autorità preposte al conferimento del diploma come uno stigma. L’altro problema della protagonista è la ricerca del padre che appunto non si sa che fine abbia fatto e di quest’assenza (anche documentale) Paula non riesce a darsi pace

Su questo doppio conflitto si innesta una sceneggiatura a dir poco laboriosa, a tratti davvero farraginosa e decisamente ripetitiva, con personaggi minori mal delineati e un finale decisamente posticcio.

Si vede che la regista si è innamorata di quest’idea metafilmica e allegorica, ma che al di là delle società a tre livelli e di un abbondante ricorso all’universo concentrazionario (i riferimenti a 1984 si sprecano ma com’è ovvio anche al Truman Show, anch’esso come The Ordinaries un film del/sul metaverso) e a non pochi effetti speciali (un personaggio outtake, ad esempio, è “affetto” da jump-cut, lo stigma principale è essere in bianco/nero, più in generale l’uso del colore, profondamente antinaturalistico etc.)  la storyline (giusto per citare una delle espressioni più ricorrenti nel film) non riesce proprio a decollare anche per l’eccesso di pesantezza con cui la vicenda viene ad essere gravata.

Pur con tutta la benevolenza che non si può non accordare a Sophie Linnenbaum per aver tentato di uscire dal paradigma realistico-minimalista, da cui il cinema tedesco contemporaneo è certamente affetto, il film, c’è poco da fare non convince del tutto.


The Ordinaries –  Regia: Sophie Linenbaum; sceneggiatura: Sophie Linnenbaum, Michael Fetter Nathansky; fotografia: Valentin Selmke; montaggio: Kai Eiermann; interpreti: Fine Sendel (Paula), Jule Böwe (la madre), Henning Peker (Heidi/la domestica); produzione: Bandenfilm Laura Klippel & Britta Strampe GbR, ZDF; origine: Germania, 2022; durata: 119′.

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