Il 26 gennaio inizia, ammesso che questo verbo abbia ancora un significato nell’eterno presente del virtuale, l’edizione numero 51° del Festival di Rotterdam. Anche quest’anno, come già accaduto nel 2021 per i motivi che tutti conosciamo, le varie sezioni della manifestazione saranno disponibili attraverso l’uso di piattaforme online, con distinzioni sia territoriali che professionali. Un catalogo eterogeneo di film destinato a visioni, valutazioni e a interpretazioni più o meno solitarie.
Inutile nasconderlo, il Festival di Rotterdam è tra le manifestazioni più penalizzate in quest’epoca di pandemia. La selezione continua a essere raffinata, spiazzante, sperimentale, con accanto il solito best of che raccoglie le opere che hanno contraddistinto la stagione appena passata. Quello che attualmente non è riproducibile è il contatto. Per tradizione, a Rotterdam è abolito il distanziamento: spettatori, addetti ai lavori e autori sono indotti a intercettarsi, a scontrarsi, difficilmente a evitarsi.
Perso questo elemento distintivo, che in realtà dovrebbe appartenere a tutti i festival, rimane l’altro tratto importante, quello della sorpresa, dell’inatteso che non si manifesterà nel buio di una sala ma nell’attimo in cui si deciderà di aprire un link. Da questo punto di vista, è sempre difficile fornire delle vere e proprie anticipazioni sul programma di Rotterdam. Meglio vedere e poi parlare. Cercando di comprendere un linguaggio e di assorbirlo, e con la chiara disposizione a lasciarsi andare.
Naturalmente abbiamo una lista di titoli, con in testa un concorso – di cui daremo conto nei prossimi giorni – composto da 14 opere: quattro europee (Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Russia), quattro asiatiche (Israele, India, Cina e Giappone), cinque americane (Canada, Stati Uniti, Messico, Paraguay e Cile) e una dall’Australia. Scorrendo le biografie dei registi, solo quella dell’israeliano Roee Rosen (autore di Kafka for Kids) è ricca di titoli e di partecipazioni nei festival internazionali. Mancano all’appello cinematografie che usualmente sono presenti, come quelle dall’estremo oriente, per esempio Corea del Sud, Indonesia, Thailandia e Malaysia. Ed è totalmente assente il continente africano.
Per quanto concerne le altre sezioni, sono 15 i film proposti in Bright Future, una versione ridotta che si spera conservi il coraggio e la spregiudicatezza di sempre. Limelight offre, invece, una ristretta selezione di lavori che hanno già avuto passaggi importanti nei diversi festival del 2021. Da France di Bruno Dumont a Freaks Out di Gabriele Mainetti, da Inexorable di Fabrice Du Welz a Love After Love di Ann Hui, da Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour a Red Rocket di Sean Baker e Vortex di Gaspar Noé, per un totale di 11 titoli.
Decisamente più corposa è Harbour, altra sezione retrospettiva, con 39 titoli tra cui Barbarian Invasion di Tan Chui Mui (vincitrice del Tiger Award nel 2006 con Love Conquers All), Benediction di Terence Davies, The Mole Song: Final di Miike Takashi, solo per citare alcuni dei registi più rappresentativi. I due focus sono dedicati alla filmmaker Amanda Kramer e all’artista e al regista cinese Qiu Jiongjiong.
Come già detto, il programma di un festival non è semplicemente una lista di titoli. Non resta allora che intercettare immagini e suoni, storie collettive e vicende personali, per poi riferirle e interpretarle, sperando di tornare ancor prima che in sala, al desiderio di condividere idee, pensieri, emozioni e suggestioni.