Il mio vicino Adolf di Leon Prudowsky

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La filmografia dedicata a Adolf Hitler è lunga, infinita. La parte del leone la fanno i film storici, com’è ovvio. E non starò a snocciolare titoli e registi. Ognuno ha la sua propria personale playlist. Ma intorno alla figura di Hitler pullula anche tutta una serie di testi (letterari in senso stretto, saggistici e anche cinematografici) che traggono alimento da quelle che in inglese si chiamano urban legends e in italiano leggende metropolitane, la più tenace delle quali, fra molte altre, è con certezza quella che – in assenza di un cadavere, del corpo del capo, del sovrano – sostiene dopo il 1945 la sopravvivenza di Hitler, sotto mentite spoglie. Il suicidio nel Führerbunker della fine di aprile del 1945 e l’immediata cremazione di Hitler nei giardini della cancelleria sarebbero solamente coperture. Hitler è ancora vivo, o comunque era, negli anni successivi al 1945, ancora vivo. E al pari di molti nazisti o ex nazisti – Adolf Eichmann in Argentina, Josef Mengele in Argentina prima e poi in Paraguay e in Brasile, dove morirà – anche Hitler sarebbe approdato in Sud America, stavolta in Colombia. È quanto sembrerebbe accadere nel primo lungometraggio del regista russo-israeliano Leon Prudowsky, intitolato Il mio vicino Adolf, coproduzione polacco-colombiano-israeliana, presentata a Locarno quest’estate e che adesso esce in Italia, grazie alla distribuzione di IWonder Pictures.

Siamo nel 1960, l’anno della cattura di Eichmann ad opera del Mossad e uno scontrosissimo e con tutta evidenza traumatizzato sopravvissuto dell’Olocausto di nome Marek Polsky (interpretato dall’attore inglese David Hayman) che vive da solo in una casa colonica in mezzo al nulla vede all’improvviso che l’unico altro edificio della zona, guarda a caso, attaccato al suo, fin qui disabitato, viene ad essere occupato. Da un signore con un barbone, evidentemente finto, un cane a cui, come Hitler, è attaccatissimo (si chiama Wolfie, quello di Hitler si chiamava Blondie), quell’uomo dipinge come Hitler e nello stesso stile di Hitler, parla tedesco con un tono piuttosto imperioso, come Hitler, riceve visite inquietanti da parte di personaggi che lo venerano, a cominciare da una signora dall’inquietante nome Kaltenbrunner (uno dei condannati di Norimberga si chiamava così) e poi quegli occhi azzurri, mamma mia che occhi, lui, Marek, quegli occhi li conosce, li ha visti, sono trascorsi 26 anni, ma come si fa a scordarsene. Li ha visti a Berlino, nel 1934, un torneo di scacchi – e Hitler fece in quell’occasione una breve comparsata.

L’inizio della relazione fra i due è a dir poco drammatico, anche perché il nuovo arrivato conosce il catasto e sa che una parte importante del terreno di Marek pertiene in realtà all’altra colonica. E guarda caso è proprio la zona in cui il reduce svolge l’unica attività che, prima dell’arrivo del vicino, sembra(va) interessarlo: coltiva rose nere, rose a lutto (che ricordano il “latte nero” di Todesfuge di Paul Celan) ma anche rose che gli rammentano l’attività che la sua famiglia svolgeva, prima di venir tutta uccisa in un campo di sterminio. Il fatto è che Marek vuole saperne di più di questo signore. Sa che è Hitler, accumula prove inequivocabili, evidenze che è lui, ma è come alla ricerca della prova definitiva e per far questo ne tenta di tutte pur di insinuarsi in quella casa. Si dà il caso che i due dividano l’amore per gli scacchi e quindi, fra mille diffidenze, i due si avvicinano sempre più, fin quando…

Non rivelo altro, ma diciamo che il film (in cui si parlano tante tante lingue anche in omaggio alla coproduzione) a lungo piuttosto noioso perché la costellazione è un po’ sempre la stessa (l’ossessione di Marek finisce per non dargli scampo anche a fronte, proprio a fronte della totale diffidenza dei servizi segreti israeliani, a cui si rivolge perché vengano a catturarlo) diventa giusto nella parte finale piuttosto sorprendente e originale, anche se forse è troppo poco per riscattare un film con una sceneggiatura un po’ zoppicante e tutto sommato ripetitiva, nella quale, incessante, si ripete sempre la stessa domanda di fondo: Marek è il classico reduce affetto da PTSD (Post-Traumatic-Stress-Disorder) o nella sua ossessione c’è un qualche fondo di verità?

Udo Kier

Il vicino di casa è interpretato da un’icona del cinema internazionale, ovvero Udo Kier (1944), che in Italia ha girato con Dario Argento, Duccio Tessari e di recente con Laura Bispuri, ma che ha alle spalle film con Werner Schroeter, Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog, oltre a un numero significativo di film con Lars von Trier. Il trucco, ovvero soprattutto la barba, non aiuta tuttavia le sue doti attoriali, in altre occasioni molto più convincenti.

In sala dal 3 novembre


My Neighbour Adolfregia: Leon Prudowsky; sceneggiatura: Leon Prudowsky, Dmitri Malinsky; fotografia: Radek Ladczuk; montaggio: Hervé Schneid; interpreti: Udo Kier (Hermann Herzog), David Hayman (Marek Polsky), Olivia Silhavy (la signora Kaltenbrunner); produzione: 2 Team Productions, Film Prodkucja, Tango Films; origine: Polonia, Colombia, Israele 2022; durata: 96′. distribuzione: IWonder Pictures.

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