Claudia Brignone è una giovane regista con all’attivo oltre a dei corti, già due film documentari (La malattia del desiderio, del 2014, e La villa del 2019) entrambi ambientati a Napoli, città dove è nata e dove abita. In questo senso, se la sua posizione di partenza è quella di una conoscenza preventiva della realtà che intende interrogare con le immagini – disposizione inevitabile per chi prende seriamente in considerazione il documentario-, l’esito, con scarto felice, sembrerebbe piuttosto quello di un incontro tra la realtà ripresa e quella dell’autrice. Non, quindi, registrazione della realtà inseguendo i fantasmi di una presunta oggettività – dei fatti e dello sguardo; piuttosto traccia per immagini di una relazione possibile tra l’autrice e il mondo che viene ripreso in quella che, passo passo, sotto i nostri occhi, da indagine sociale diventa anche cifra coraggiosamente autoriale. Per Brignone, autrice animata da una sincera curiosità interiore, il cinema sembrerebbe essere allora, e costitutivamente, forma di apertura al mondo attraverso l’incontro con altre e altri e insieme promessa di un mondo (migliore).
Nel tentativo, non per forza congruo, di dare un nome alle cose, il lavoro della regista napoletana potrebbe rientrare nella costellazione del “cinema del reale”, laddove ragioni etiche e scelte formali si intrecciano nel documentare tanto una realtà specifica quanto il modo con cui la si guarda. Tanto più che è proprio da questa tensione non riconciliata, per mezzo della quale lo sguardo si sporge dal consueto e dall’allineato, che può derivare un’esperienza di senso che sia insieme anche esperienza estetica – in ciò decostruendo tanta retorica sul binarismo fiction-non fiction, così come sulla dicotomia razionale-sensibile.
E difatti, in Tempo d’attesa, che è anzitutto il racconto del tempo di vita vissuto insieme – in “comunità”- da alcune donne durante la gravidanza e guidato dalla saggezza di una donna più esperta, Teresa De Pascale, ostetrica e fondatrice dell’associazione Terra Prena, che le accompagna fino al parto e durante il primo anno delle nasciture e nascituri, la dimensione allargata del vivere in comune viene restituita anche dallo sguardo espanso e sensibile della regista, che accompagna, anch’esso, tanto le vite delle protagoniste quanto il paesaggio (nervo ottico e coscienza) di chi guarda, in tal modo mettendosi durevolmente accanto ai corpi, ai timori e ai desideri delle donne protagoniste.
È quindi una specie di soggettiva libera indiretta, quella messa in scena da Brignone, in cui la regista, con grande coraggio e altrettanta perizia, si fa sguardo delle differenti voci della coralità di un insieme indagato, in tal modo divenendone essa stessa parte – di nuovo problematizzando l’”oggettività” ancora veicolata da tanto cinema documentario.
“Il film nasce dall’esperienza personale della mia gravidanza. Dalla paura di diventare madre e di affrontare questo passaggio. Ho cominciato così a cercare esperienze che mi potessero sostenere in questo momento della vita. Volevo smettere di avere paura e accogliere mia figlia nel migliore dei modi. Sentivo un grande senso di responsabilità. Durante la mia ricerca ho incontrato un’ostetrica e un gruppo di donne, grazie alle quali la mia paura si è trasformata in forza”, così racconta con coerenza.
La catena della paura viene infatti messa al setaccio in tutti i film della regista: l’indagine di un luogo come anche di una fase o età della vita; i rapporti di esclusione, mutualità o solidarietà in atto o in potenza; l’accensione di una miccia con cui far esplodere le abitudini tristi o peggio le ipocrisie; la ricerca di altre vie con cui ricucire un senso, e a partire proprio dal ritrovare un senso nella comunità –perché l’individuo solo si perde nei propri fantasmi e si ammala di mancanza. La malattia del desiderio, primo suo splendido documentario, ci parla in fondo anche di questo, di come la dipendenza sia la malattia di chi desidera al massimo. E di come una comunità effettiva e trasformativa (terapeutica e di riabilitazione, in questo caso) si costituisca proprio a partire dal vedere e riconoscere effettivamente i bisogni e desideri umani: non solo astratti furori quindi, piuttosto incarnazione singolare da incontrare nelle storie di Gaetano, Felice e Elisa di Fuorigrotta, a Napoli, così come in quelle di ogni altra e altro legati ad altri luoghi e ad altre possibili forme di comunità. Anche perché le fragilità di una dipendenza sono sempre il frutto storico di una società che troppo spesso mal si rapporta con i bisogni: falsificandoli e mercificandoli, li utilizza per produrre alienazione e devianza.
Manuela Fraire, femminista e psicoanalista, nel suo ultimo libro, La porta delle madri (Cronopio, 2023), ragionando sulla natura anfibia del sessuale umano – natura insieme corporea e linguistica – , suggerisce come sia ancora oggi un rimosso (sociale) interrogarsi troppo (avverbio che molto piace a chi è spaventato dal desiderio altrui… ché poi negandolo, in ogni caso un atto di violenza, si tiene anche al riparo dal dover fare i conti con il proprio) sulle modalità con cui ciascuna e ciascuno si misura con il proprio bagaglio di bisogni, pulsioni e desideri alla base di realizzazioni o rinunce: “gli esseri umani non sono composti del biologico e del simbolico, del fisico e del metafisico; sono piuttosto altrettanti punti in cui è generata la differenza tra questi due elementi sicché non esiste né “una pura vita” (pura natura) né un “puro simbolico” (Fraire con Alenka Zupancic).
Con parole dirette, incise di realtà, Brignone parla della maternità come di “uno sconvolgimento emotivo e fisico; ognuna deve sentirsi libera di viverla come crede”; e così fa anche De Pascale quando, andando al fondo di questioni rimosse, suggerisce alle giovani (e meno giovani) gestanti di come il parto sia in relazione con il sessuale. E di nuovo, in Brignone e le altre, scorgiamo un corpo a corpo, rigoroso ed eccendente insieme, con la natura anfibia dell’animale dotato di linguaggio -corpo biologico, sessuato, emotivo, simbolizzante.
E tanti animali attraversano il suo cinema: da quelli più domestici, come cani e gatti, fino ad arrivare alla wilderness di cammelli, zebre e leoni (qui Brignone riesce nell’impresa quasi impossibile di rifilmare il circo senza pagare gabella alla retorica o peggio alla strumentalità), passando per un territorio salmastro e perturbante popolato di rane, girini e ricci, sorta di riformulazione, ma più immanente, di quell’inventario meraviglioso che può essere l’amico immaginario di un ragazzino troppo solo (uno de protagonisti di La villa, secondo e pluripremiato suo documentario: storia di una eterotopia possibile, rappresentata dal parco comunale rigenerato dai resti di una discarica, accumulata negli anni, davanti a Le vele, a Scampia).
In Tempo d’attesa, in cui entrambi i termini corrispondono ad invenzioni e aspettative tutte umane -il “tempo della promessa”-, la tensione fertile viene attivata, infatti, anche dal confronto, o meglio dalla compresenza di immagini diverse ed eterogenee nelle quali la natura non assume una funzione strumentale alle ragioni di una narrazione “forte”: essa ci viene infatti mostrata in quanto esistente, nel flagrante di una durata costante, in mezzo e accanto ad affanni e allegrie tutte umane, istanza vitale sempre attuale -mai dimenticata o solo considerata per utilizzi finalizzati.
Così che anche il rituale del circolo di donne all’ombra di un grande albero secolare, con cui rimettere nel ciclo della vita la paura di ritrovarsi in balia -posizione originaria- della natura, in tal modo riformulando anche la paura di morire, o di causare la morte di qualcun altro, più che farsi simbolo per dire qualcos’altro, diventa sequenza “aperta” avente un proprio movimento interno, immagine con cui accogliere la complessità del reale facendo spazio alla grazia imprevista del momento e al tempo lungo dell’esperienza.
Tempo d’attesa – Regia, sceneggiatura, fotografia: Claudia Brignone; montaggio: Lea Dicursi; musica: Valerio C. Faggioni, Roberta D’Angelo; produzione: Raffaella Pontarelli per Amarena Film con Rai Cinema. Con il supporto di FCRC e Regione Campania; MFN-Milano Film Network. Con il contributo dell’Associazione Premio Greencare e di Euphorbia-Cultura del Paesaggio; origine: Italia, 2023; durata: 75 minuti.