40° Torino F. F.: Corpo dei giorni di Santabelva (Concorso documentari italiani)

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Cominciamo con una assoluta banalità: per girare un bel documentario ci vuole prima di tutto un importante soggetto e poi bisogna trovare una forma. Talvolta il soggetto c’è ma la forma zoppica, gira su sé stessa, non è all’altezza della qualità del soggetto, anzi, forse, è il proprio il soggetto a schiacciare la forma, talvolta accade il contrario: a una forma elaborata, talora elaboratissima corrisponde un soggetto debole. Ebbene il documentario Corpo dei giorni del collettivo Santabelva presentato nel Concorso documentari italiani al Torino Film Festival appartiene a quella – a mio avviso – piuttosto rara categoria di documentari dove siamo in presenza sia di un soggetto forte, a tratti fortissimo per il quale il cineasta (in questo caso i cineasti) hanno saputo anche trovare la forma più adeguata.

Santabelva è un collettivo composto da cinque cineasti delle più diverse provenienze e dalla più diversa formazione disciplinare che a un certo punto, diciamo fra i venticinque e i trent’anni, conclusi gli studi, si sono ritrovati ad avvertire la necessità, il desiderio di girare film, per lo più documentari. Il loro momento di massima notorietà risale a due anni fa, quando l’edizione online del “New York Times” ha pubblicato un loro video di poco più di 7 minuti intitolato Messages from Quarantine, girato con un drone fra le facciate delle case di Milano in pieno lockdown, suscitando unanime apprezzamento per il loro notevole rigore formale e una narrazione impostata sulla sottrazione.

E il lockdown gioca un ruolo tutt’altro che secondario anche in Corpo dei giorni perché il documentario racconta la vita di un’azienda agricola nel comune di Allumiere fra Roma e Viterbo, nella Maremma laziale. Non ci sarebbe niente di spettacolare (e chissà forse di interessante) nel limitarsi a raccontare la vita di un’azienda agricola, se fra gli ospiti temporanei di quella fattoria non vi fosse – per un periodo che in origine doveva essere di soli quindici giorni ma che per via, appunto, del lockdown si allungherà fino a cento – un certo Mario. “Con la guerra e con la peste chi si spoglia e chi si veste”, dice Mario dopo una decina di minuti, facendo capire che in condizioni “normali” lui in quell’azienda non sarebbe più potuto rimanere ma “grazie” al Coronavirus la sua permanenza si è allungata e che quindi dalla pandemia ha tratto un paradossale profitto.

Del resto nei minuti antecedenti, la macchina da presa, collocata dentro un fuoristrada, riprende una strada accidentata, e dentro il veicolo qualcuno sta discutendo che cosa (non) farebbe se si trovasse a dover scontare una lunga condanna in carcere. Insomma lo spettatore nell’arco di una quindicina di minuti ha capito che Mario è in libertà condizionata. Ma ancora non sa bene chi sia questo Mario. Si capisce che è toscano, dopo una quindicina di minuti sappiamo che è originario di Empoli. È solo al minuto 18 che lo spettatore apprende il cognome di questo signore un po’ appesantito, con capelli e barba bianca, la coppola, vestito come ci si veste in campagna. Al minuto 18 gli autori del documentario gli chiedono di dare lettura della voce di Wikipedia a lui dedicata, e lui fra molte titubanze alla fine decide di farlo, salvo dichiarare che buona parte delle informazioni riportate non corrisponde al vero.

Mario altri non è che Mario Tuti, terrorista di estrema destra che negli anni ’70 ottenne famigerata notorietà, mettendosi a capo del Fronte Nazionale Rivoluzionario che seminò terrore nelle linee ferroviarie soprattutto toscane, continuando anche una volta dietro le sbarre a far parlare di sé per aver ucciso insieme a un altro allora celebre terrorista di destra (Pierluigi Concutelli) un “pentito” nel carcere di Novara e per essersi messo a capo di una rivolta dei detenuti nel carcere di Porto Azzurro all’Isola d’Elba.

È solo nella seconda metà del film che i registi decideranno di dedicare un paio di minuti a spezzoni di telegiornale e ritagli di giornale risalenti agli anni in cui tutto questo avvenne, in funzione, diciamo così, definitivamente autentificante. Adesso, ovvero nel 2020, l’anno a cui risalgono le riprese, Mario Tuti ha 74 anni e non perde occasione, tutte le volte che gli autori decidono di concentrarsi su di lui, di ribadire alcune poche cose: che è vecchio e che la vecchiaia è un male, che non rimpiange quel che ha fatto, che non si è assolutamente pentito, che anzi è fiero di aver attraversato alcune esperienze che lui considera centrali. Tuti parla come un veterano, orgoglioso della guerra che ha combattuto, insopportabilmente sprezzante con chi, come i giovani autori che caparbiamente cercano di capire e di trovare un canale di comunicazione con lui, non si è mai trovato dinanzi a momenti di una intensità quasi religiosa, metafisica, come lo sguardo di qualcuno a cui stai per sparare.

E allora il tentativo di avvicinarsi a questo monolite, a questo mostro i registi lo compiono per via squisitamente visiva, metaforica, creando delle analogie con animali, piante, pietre, quasi a voler vedere Tuti come un insondabile mistero di natura. Un mistero tanto più impenetrabile in quanto nelle scene che lo vedono al centro della comunità di cui, seppur temporaneamente, è venuto a far parte, Tuti mostra una bonarietà, un’empatia, una gentilezza altrettanto sconvolgente quanto la sua efferatezza. Ciò avviene sia quando partecipa fattivamente alla vita di questa piccola comune agreste, fatta di gente ingenua (di cui apprendiamo qua e là anche qualche lacerto di passato), sia, soprattutto quando Tuti parla al telefono e via cellulare si presta ad aiutare il nipote che deve fare i compiti fornendo con la massima competenza informazioni di grammatica e storia (in carcere si è laureato in Filologia Germanica), fra le quali spicca una serie di consigli su film da visionare per saperne di più su shoah e antisemitismo, Schindler, Anna Frank o Dreyfus. Sentire questi nomi in bocca a Tuti fa un po’ rabbrividire, ma uno dei numerosi meriti di questo bel film è che i registi cercano di mantenere la calma, di non fare i moralisti, aiutandosi, in questo, con un uso esemplare del montaggio, che avvicina e distanzia l’oggetto principale del loro film, per poi tornare a circoscriverlo, come con estrema cautela ci si avvicina a una bestia (anche) feroce, lasciando lo spettatore confuso e sbalordito. E un buon documentario (che speriamo trovi presto una distribuzione), a mio avviso, deve fare così, lasciarci confusi e sbalorditi.


Corpo dei giorniRegia, sceneggiatura:  Santabelva, Alessandro Belotti; soggetto: Henry Albert;  fotografia: Nikola Lorenzin, Gianvito Cofano; montaggio: Alessandro Belotti; produzione: A Small Company; origine: Italia 2022; durata: 96′

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