È un movimento inverso rispetto alla Storia collettiva e individuale quello che compie Non ne parliamo più- L’inferno a cui siamo sopravvissuti (in concorso al 40° Festival del cinema di Torino nella sezione documentari) declinato nella forma contemporanea del racconto autobiografico familiare ( Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi ne era stata un’emblematica espressione proprio vent’anni fa, nel 2002): Il doppio sguardo che lo conduce, quello di Cécile Khindria e di Vittorio Moroni ( del quale ricordiamo Le ferie di Licu, altro fecondo incontro tra l’approccio documentaristico e uno spostamento ancora più estremo sul crinale della rappresentazione) inizia, come ci annuncia il titolo, da una negazione e da un rimosso rispetto ad un determinato evento storico anzi, più precisamente in questo caso , al destino post bellico di una parte del popolo algerino dopo la guerra d’indipendenza avvenuta tra il 1952 e il 1964.
Si chiamano Harkis (la traduzione araba sta per banda) e sono tutti quei mussulmani algerini che, all’insorgere delle rivolte guidate dal FLN (Fronte di liberazione nazionale) contro il governo francese, decisero di continuare a sostenere quest’ultimo, arruolandosi come soldati di una milizia irregolare che supportava l’esercito coloniale. Una sorta di subalterna guerra civile che, al termine dei conflitti e del riconoscimento dell’indipendenza dell’Algeria, portò a una talvolta sanguinosa resa dei conti interna tra vincitori e vinti. Ma qui non siamo nel campo della disamina storica o politica, nonostante ci siano tante parole che si fanno come testimonianza ad unisono di volti e storie private e collettive.
Il filo conduttore è una storia generazionale, quella di Sarah, figlia e nipote di harkis che per comprendere e offrire delle risposte a se stessa e alla figlia neonata ( forse la vera destinataria della diaristica voce off di questa indagine esistenziale e sentimentale, necessaria a riempire inevitabili silenzi e reticenti tensioni) ritorna nella prima scena del post trauma: Bias, comune situato nel dipartimento di Lot e Garonna, vicino a Marsiglia, trasformato nel non luogo di un campo profughi per coloro i quali avevano combattuto al fianco dei francesi contro gli algerini rivoltosi loro compatrioti. Qui sono cresciuti il padre e i nonni di Sarah ed è qui che comincia il progressivo avvicinamento alla ricostruzione di un qualcosa che si configura da subito come più di un fatto storico dal punto di vista narrativo e di un processo di riappropriazione della memoria da quello psicologico ed emotivo; si scava, con la forza della parola e della sua negazione (le scene in campo lungo o riprese dall’appannato parabrezza di un auto durante le quali Sarah viene allontanata dagli abitanti del luogo che non vogliono farsi intervistare lasciano un dolente e inequivocabile segno) , sulla distruzione e riformulazione di un’identità e di un appartenenza, in primis ad un territorio. Lo stesso utilizzo dei filmati di repertorio non ha esclusivamente lo scopo di creare una continuità , un ponte diacronico tra il passato e il presente, l’ Africa e la Francia, la fierezza e la miseria; introduce infatti il documento immateriale ma non fantasmatico di individui che hanno trascorso la giovinezza e l’infanzia nell’elaborare crudeltà letteralmente indicibili di ogni tipo e natura, dalle torture e le umiliazioni per mano degli ex fraterni connazionali appartenenti al FLN in terra d’Algeria, all’isolamento del campo/ ghetto nella Francia divenuta mai la Nuova Terra di consolazione e ristoro, ma un limbo sospeso in cui scontare la presunta colpa del tradimento della propria comunità d’origine e soffocare l’afflato della possibile redenzione in un’altra forma antropologica e culturale(per la quale si è versato del sangue e si è fatta una scelta di campo).
Uno dei punti di forza della regia di Khindria-Moroni , e della loro protagonista onnipresente per sguardo e presenza e di fatto co-autrice assieme a loro, è l’aver evocato la portata immensa e devastate del fuori campo dell’affaire Harkis fino a rendere comprensibili, in una trama di sottile suspense, i vibranti non detti fino all’essenzialità di un ‘emozione attesa e inaspettata. Il pudore di Sarah, la quale non nasconde a sua volta i dubbi e le paure sulle conseguenze del liberatorio processo di confessioni che ha innescato, si traduce filmicamente in una distanza fisica tre lei e gli intervistati, lo spazio che intercorre tra il bisogno di verità e la sua attuazione comunicativa. Emerge il pensiero che sta prima dell’immagine e della parola , nel crescendo di un incontro perduto e poi recuperato all’inizio nell’orizzontalità fissa del piano sequenza per rappresentare il rifiuto e il letterale muro di omertà messo in particolare dagli Harkis di prima e seconda generazione; e dopo nella circolarità sempre più aerea e aperta dei multiformi campi e contro campi al momento del confronto sui ricordi intorno al tavolo del rituale domestico interrotto nella sua routinaria funzione di dialogo quotidiano e assorto a catalizzatore di rivelazione franche e struggenti sugli squarci grondanti lacrime e sangue di una ferita ancora aperta.
Ed essendo Non ne parliamo più, in maniera traslata e con le dovute cautele, un misurato thriller dell’anima e della memoria è più corretto non descrivere qui puntualmente ma trasfigurare, sotto un certo punto di vista, la scena finale, e lasciare allo spettatore la scoperta del vero e proprio climax dove l’accennato discorso sull’identità trova una compiuta esplicazione: quello che siamo stati ha a che fare con quello che siamo e con quello che diventeremo. In questa trasparenza di intenti e, in parte, di risultati resta a tratti il rischio di un’ implosione, di un appiattimento su una semplicità stilistica che , come il sorriso imbarazzato di Sarah, spegne o attutisce la carica di quelle voci, rischia di farne le cartoline di un reportage dall’inferno e di ridimensionare l’accurato e fondamentale lavoro sul contesto come contrappunto desolante al pieno della parola. La stessa parola che , in alcuni momenti, si infittisce troppo e avrebbe bisogno, per mantenere alta la concentrazione sul suo pregnante significato, di un maggiore respiro.
Ma l’emozione altrettanto cristallina di questo quieto film su uno dei molteplici, inquieti e dilanianti frammenti della Storia dell’umanità rimane là, sullo schermo, come lo sguardo ormai alleggerito di Sarah riflesso in quello della sua bambina che mi ha ricordato, chissà perché, la possibilità offerta dai versi della poetessa tedesca premio Nobel Nelly Sachs , ebrea costretta a fuggire dalla Germania durante l’occupazione nazista: “ Invece della patria stringo le metamorfosi del mondo” ( dalla poesia Fuga e metamorfosi). Una manifestazione dello spirito e della mente che sembra appartenere ai sopravvissuti della guerra e ai loro discendenti, convertendo la staticità di uno stigma e di una perdita nel dinamismo generativo , magari di un nuovo matriarcato.
N’en parlons plus – Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Cécile Khindria e Vittorio Moroni; musiche: Mario Mariani; produzione: 50Notturno Con la partecipazione di: Agence France Presse, Ala Bianca, Collection Ciclic-Centre Val de Loire, Cinémathèque de Nouvelle-Aquitaine, Institut National de l’Audiovisuel, SONUMA-RTBF; Origine: Italia/Francia 2022; Durata: 76 minuti.