Last Words di Jonathan Nossiter

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3

L’inizio è la fine è l’inizio …una vecchia canzone degli Smashing Pumpkins, colonna sonora di un trascurabile capitolo della saga anni ’90 di Batman (Batman e Robin di Joel Schumacher) , aveva appunto questo titolo, in inglese The end is the beggining is the end, un’espressione talmente evocativa e simbolica da poter essere presa in prestito per inquadrare  anche l’incipit di Last Words, l’opera più recente dell’eclettico cineasta indipendente americano Jonathan Nossiter, che arriva adesso nelle nostre sale (era stato selezionato nel 2020 per la poi cancellata edizione del Festival di Cannes a causa della pandemia). La prima inquadratura vede infatti un giovane uomo africano che, parlando nella sua lingua, ci annuncia che siamo nel 2086 e che presumibilmente lui è l’ultimo essere vivente rimasto sulla terra all’indomani – The day after tomorrow, come recitava l’apocalittico disaster movie (2004) di Roland Emmerich – di una catastrofe ecologica che ha desertificato la terra, generato malattie mortali incurabili e fatto regredire gli esseri umani a una condizione prestorica di sopravvivenza e isolamento. Viene dunque annunciata da subito la fine imminente, che si intreccia però con l’ultimo racconto, in cadenza di videodiario , che Kal  – questo il nome del protagonista – vuole lasciare come segno, impronta, testimonianza non tanto rivolta al qualcuno di un mondo ormai fantasmatico e scomparso, quanto per restituite a se stesso il senso della sua esistenza perché, parafrasando l’esplicito leitmotiv di tutto il racconto, nessuna storia esiste se non è mai stata raccontata.

Dunque si torna alle (nuove) origini di una civiltà delle immagini in cui sono i popoli terzomondisti (l’Africa è sparita inghiottita dalle acque)  ad aver pagato più duramente l’abuso e lo sfruttamento delle risorse idriche e geologiche da parte delle tecnocrazie occidentali, collassate sotto il peso dell’ultimo, violento rigurgito neocapitalista. E la prima parte di Last Words, con Kal e la sorella che attraversano la devastazione e l’imbarbarimento di una Parigi sotto le macerie, con la stessa torre Eiffel ridotta a decadente, sventrata icona  nella sfocatura di un campo lungo (forse la più notevole sequenza-visione del film), possiede una tensione costante,  ottenuta in una creativa valorizzazione espressiva dell’evidente pochezza di mezzi. E anche la riflessione  che ne deriva, non ancora troppo enunciata o esposta a prescindere  dalla voce off di Karl che commenta ogni passaggio, ha una sua ora desolante ore suggestiva forza comunicativa: la sorella di Karl, forse l’ultima donna a rimanere incinta, si vedrà estirpare letteralmente il suo bambino dal grembo (in un rigoroso fuori campo) da parte di un gruppo di ragazzini teppisti che sembrano usciti dalla contro epopea post umana di Mad Max, e il fratello, una volta prosciugato quel terminale  barlume di carne e sangue, non potrà che rivolgersi ad un altro corpo tangibile e materico, quello della celluloide cinematografica ( significativamente sopravvissuta all’evanescente digitale, scomparso con la fine dell’energia elettrica). A questo punto entra in scena la parte più didascalica ed esplicativa , in cui il protagonista, deciso a scoprire il mistero degli anelli di pellicola trovati assieme alla sorella in una casa diroccata, si recherà a Bologna all’interno di ciò che rimane della cineteca (ed è proprio la cineteca di Bologna a figurare tra i produttori di questo film, che verrà presentato anche durante l’imminente  edizione del Cinema ritrovato).

Nossiter, seppur nella prospettiva di un realismo che gli ha fatto sempre osservare ed esplorare con partecipazione, ironia e pietas microcosmi marginali ma attraversati da tormenti e pulsioni  – forse qualcuno ricorda lo splendido Sunday, 2002, diretto da Charles McDougall, storia d’amore e di eros tra due maturi clochard sulla sfondo di una New York autunnale e chiaroscura -, alza qui le proprie aspirazioni  e mette moltissima carne sulle ceneri ancora calde, se non proprio sul fuoco, di un’umanità che ha ancora il bisogno, il desiderio, l’entusiasmo di raccontarsi e ricordarsi, e la capacità di comunicarlo ed insegnarlo. Così il vecchio custode (interpretato da un Nick Nolte sempre più ascetico e irriducibile freak out di un’inattuale contro cultura) di quel luogo dove, grazie allo stupore e alla curiosità di Karl , si torna ad un’ essenza-effetto del cinema  come pura meraviglia e rivelazione di un ‘immaginario e poi (ri)costruzione in presa diretta di una memoria , si pone come il maestro/mentore/guida  di questo nuovo atteso e inaspettato messia terminale, “chiamato” a documentare Gli ultimi giorni dell’umanità.

E, amplificando e sconfinando nell’inevitabile serie di citazioni cinematografiche presenti  (con un grand omaggio in particolare a Risate di gioia di Mario Monicelli e Monty Python- il senso della vita di Terry Jones) potremmo azzardare che Last Words è un po’ il making off del film diretto da Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, la trasformazione  di un disarticolato, fluttuante, parziale e soggettivo universo di riferimenti e rimandi visivi  nella pratica comune e condivisa di proiettare e vedere in uno spazio pubblico. Il vecchio,  un po’ forzatamente soprannominato Shakespeare tanto perché non fosse abbastanza chiara la sua funzione, e Karl arrivano cosi in quella che appare una sorta di derivativa comune hippie, dove i pochi uomini e donne rimasti occupano le residuali aree verdeggianti per provare ad impiantare delle diverse culture di piante commestibili (un tema, quello delle coltivazioni biologiche e delle piccole aziende agricole in contrapposizione alla massificazione industriale e commerciale delle multinazionali molto caro a Nossiter, che vi dedicò uno dei suoi documentari più celebri, Mondovino, 2004). E in questo campo di utopistiche sperimentazioni e concrete speranze, (ri)porteranno l’arte/artigianato di un cinema fisicamente riprodotto dalle gambe, nell’atto del pedalare, con una bicicletta  in movimento che fa girare il proiettore, e costruito manualmente nella meccanica ( cosi simile alla struttura del corpo umano, secondo il medico leader dell’accampamento) di una cinepresa.  Ma questa abbondanza di questioni che si incontrano e si sovrappongono tende a soffocare la sincera ispirazione del regista  e il suo partecipe afflato etico ed estetico sotto la pressione di dover rendere conto di troppe cose, esondando dal proprio limite, dall’incapacità di tenere insieme ambizioni e risultati.  Talvolta si ha la sensazione  che ci sia un eccesso di scontato e di semplificato, come nell’apparizione di alcune figure che hanno il carisma dei volti e dei corpi di un trasversale  cinema anglo- europeo (Stellan Skarsgard e una Charlotte Rampling un po’ verso di se stessa), ma che sembrano più presenze radunate in nome di una buona causa e nel sottolineare un simbolismo talvolta dalla mano pesante  (la Ramplig, sorta di folletto gender fluid dell’amore libero, che si fa mettere incinta dal giovane africano…). Gli stessi dialoghi, le ultime parole, si fanno sempre più ridondanti, sentenziosi, dove sono proprio le storie di cui, pur nella non specificata identità, sono portatori i vari personaggi a risultare artefatte, celebrali, intrappolate e sacrificate  nella strettoia ideologica di chi, pur in buona fede,  ha l’ansia di dimostrare e spiegare, prima che di far sentire, vedere e ascoltare.

Anche se alla fine tutto torna: l’accampamento dei post hippie dove Shakespeare e Karl giungono e concludono il loro viaggio si trova nei pressi  di Atene, che non è solo l’origine  della civiltà, della cultura, del pensiero , dell’arte (e dunque di qualsiasi immaginario…). Da Atene veniva infatti il grande cineasta greco Theo Angelopoulos e greco è anche il regista protagonista di uno dei suoi film più abissali e struggenti, Lo sguardo di Ulisse (1995) che, con le dovute distanze di statura e potenza cinematografiche, è in dialogo con questo Last Words. In quel caso , si trattava di un altro viaggio alla fine di un altro mondo (i paesi balcanici dopo il crollo del regime comuniste e le interne guerre fratricide), alla ricerca di altre perdute bobine di celluloide che raccontavano delle prime immagini filmate dai fratelli Manakis (i Lumiere dei Balcani).

Una fine che è sempre un inizio che è anche una fine…

In sala dal 15 giugno


Last Words  – Regia: Jonathan Nossiter ; sceneggiatura: Jonathan Nossiter, Santiago Amigorena; fotografia: Clarissa Cappellani; montaggio: Jonathan Nossiter; musica: Tom Smail; interpreti: Nick Nolte, Kalipha Touray, Charlotte Rampling, Alba Rohrwacher, Stellan Skarsgard, Maryam d’Abo, Silvia Calderoli; produzione: Les Films d’Ici,Paprika Films, Stemal Entertainment,Sagax Entertainment,Rai Cinema, Les Films du Rat;  origine: Italia/Francia, 2020; durata: 126 minuti; distribuzione: Cineteca di Bologna.

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