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Claudia Müller, documentarista tedesca non particolarmente celebre nata nel 1964, ha deciso di accollarsi un’impresa rischiosissima, ossia girare un documentario su Elfriede Jelinek (1946), la scrittrice austriaca Premio Nobel 2004. Perché rischiosissima? Perché siamo in presenza di un’autrice su cui esiste moltissimo materiale d’archivio, perché l’autrice è ancora viva, perché l’autrice è uscita da una ventina d’anni dalla scena pubblica, perché, dunque, era assai improbabile che Jelinek avrebbe collaborato attivamente, autentificando la legittimità dell’operazione (e così è stato). E pur tuttavia, di fronte a queste molteplici sfide, la regista (a cui va senz’altro aggiunta la direttrice della fotografia Christine A. Maier, è la direttrice, fra le altre cose, di Quo Vadis, Aida?) se l’è cavata egregiamente, prova ne sia che in occasione del recente conferimento del Deutscher Filmpreis, il film ha ottenuto il premio come miglior documentario di lingua tedesca per il 2022 e che in un articolo pubblicato sul giornale austriaco “Der Standard” e rilanciato dal più celebre settimanale tedesco “Die Zeit”, l’autrice ha “recensito” il film a lei dedicato, esprimendo sorpresa e soddisfazione su quanto, malgrado le attese, Müller fosse stata brava.

Il sottotitolo del film “Die Sprache von der Leine lassen”, ovvero sguinzagliare la lingua risponde al – ancora una volta: rischiosissimo – progetto a cui la regista intende dare vita ovvero far risaltare la caratteristica che al meglio definisce la straordinaria qualità dell’autrice, ovvero un uso mirabolante della lingua. E si capisce bene che questa sfida è molto pericolosa perché rischia, per quanto regista e direttrice della fotografia si ingegnino di “inventare” o di trovare le immagini adeguate, che il film diventi sovraccarico di parole, ciò che qua e là avviene pure, ma bisogna essere del tutto insensibili al rigoglio barocco, al sarcasmo spietato, al post-avanguardismo ludico di Jelinek per non apprezzare l’occasione che viene fornita a noi spettatori (dotati di maggiore o minore dimestichezza con l’opera dell’autrice) di trascorrere almeno un’ora e mezza “in compagnia” dell’autrice stiriana.
Uno dei molti meriti della regista consiste anche nel fatto che il film NON è un biopic, anche se soprattutto all’inizio qualcosa viene detto in merito ai traumi infantili e adolescenziali subiti dalla protagonista (una madre ipercattolica e severissima che la costringe a diventare musicista prodigio, il padre di origine ebraica segnato dalla sindrome del sopravvissuto, morirà in una clinica psichiatrica). La vita di Jelinek funge “semplicemente” da sfondo all’opera (e alle numerose dichiarazioni, interviste) dell’autrice a cui viene lasciato, come detto, moltissimo spazio, ciò che permette anche a chi non conosce la scrittrice austriaca di avvicinarsi ai suoi temi, ai suoi modi dominanti, due dei quali – fra i temi – appaiono di centralissimo rilievo: il sesso e il rapporto col proprio paese, l’Austria; quanto ai modi, beh, in perfetto stile austriaco, l’invettiva (chi conosce l’opera del primo Peter Handke o di Thomas Bernhard sa bene di che cosa sto parlando).

La denuncia mai banalmente giornalistica e engagé delle relazioni sessuali come campo di battaglia, del corpo come terreno di sopraffazione, violenza, umiliazione esercitato dall’uomo nei confronti della donna, le dinamiche sadomasochiste che determinano le relazioni umane sono forse gli elementi più noti dell’opera di Jelinek (chi non avesse mai letto nulla dell’autrice, ha verosimilmente visto il film di Michael Haneke tratto da La pianista, interpretato da Isabelle Huppert che rende piuttosto bene l’idea). E numerosi brani tratti dalle opere dell’autrice testimoniano con straordinaria pregnanza quanto questi temi siano fondamentali e con quale tenace ossessività l’autrice cerchi linguisticamente di circoscrivere, di variare questi orrori.
L’ossessione biopolitica per il corpo è al centro di numerose opere narrative e soprattutto teatrali dell’autrice, fra le quali non si può non ricordare Sportstück, un’opera monstre (la versione completa supera le sette ore), di cui vengono presentati, nel film, alcuni lacerti nella memorabile edizione con la regia curata da Einar Schleef nel gennaio del 1998 al Burgtheater. L’altra grande ossessione che nel film di Claudia Müller emerge in modo vistosissimo è l’Austria. Jelinek è in tutto e per tutto un’autrice austriaca, ossessionata dall’incapacità dei suoi connazionali di fare i conti con il passato, dal fascismo ora strisciante ora palese visto come ideologia sostanzialmente ancora oggi dominante, dal populismo, dalla xenofobia, dal culto posticcio del paesaggio e del turismo, cui viene dato, anche a livello iconico, moltissimo spazio, tale da ingenerare nello spettatore un autentico rifiuto dei villaggi e dei monti, della neve e dei boschi, nella loro inquietante immutabilità. La ricognizione sul controverso rapporto con l’Austria finisce inevitabilmente per intercettare alcuni momenti simbolici della storia austriaca del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo millennio, dalla candidatura di Kurt Waldheim a presidente della repubblica, momento spartiacque nella presa di coscienza del passato austriaco (o anche no) e l’ascesa di Jörg Haider, coincidente appunto con il conferimento del premio Nobel a Jelinek, accusata esplicitamente di essere una “Nestbeschmutzerin”, una intellettuale che insudicia il proprio nido, che sputa nel piatto in cui mangia, ciò che indusse l’autrice a ritirarsi dalla sfera pubblica e a non permettere più ai teatri austriaci di rappresentare le proprie opere.
Ma agli occhi di Jelinek, Haider è il perfetto rappresentante ideologico del proprio paese. In questi giorni, chissà come mai, mi ricorda qualcuno.
Elfriede Jelinek – Language Unleashed (Elfriede Jelinek – Die Sprache von der Leine lassen) – Regia, sceneggiatura: Claudia Müller; fotografia: Christine A. Maier; montaggio: Mechtild Barth; produzione: Cala Filmproduktion, Plan C Filmproduktion; origine: Austria, Germania 2022; durata: 96′.
