Naomi Osaka – miniserie

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Il pubblico ha sempre di più la sensazione che sia meno alto da saltare lo steccato delle immagini canoniche, fredde, distanti, della televisione ufficiale sulla gente importante: intuisce che sono più accessibili i succosi dietro le quinte dell’eroe, sportivo o in generale dell’individuo con ruoli, doveri, oneri e possibilità speciali. Glielo lasciano pensare l’impasto di social e reality, la bellezza di tanti recenti documentari biografici e il vivere in una società con telecamere e microfoni costantemente tra le dita di ogni persona. C’è (anche) questa pulsione collettiva, non nuova, ma sempre più accompagnata, dentro l’avanzare di tante docu-serie sullo sport, e c’è anche questo nei tre episodi di circa mezz’ora l’uno – disponibili su Netflix dal 16 luglio scorso – sulla grande tennista giapponese di origini haitiane Naomi Osaka, attualmente numero 2 del mondo.

C’è quel desiderio/possibilità di entrare in contatto più intimo con l’idolo, di conoscere meglio il suo lungo e non banale dopopartita. C’è anche, accanto a questo, parallelamente a questo, il desiderio/necessità dello special one di turno di mettersi in gioco, di parlare di se stesso oltre il gesto tecnico, di aprire il suo grande potenziale narrativo per sentirsi meglio, per scaricare pressione, per stabilire relazioni umane autentiche col pubblico, oppure semplicemente, affaristicamente, per accrescere la propria popolarità. E c’è da credere che in quest’era di iper documentazione visiva e di successi di docubiopicfilm che possono essere anche serie (su tutte l’esempio di The last dance su Michael Jordan) i casi aumenteranno. C’è da insistere, poi, sul fatto che oggi i campioni sportivi diventano facilmente aziende e l’aprire il proprio quotidiano, tirare fuori dalla valigia frammenti di vita personale, può diventare, oltreché il modo per mettersi in gioco e lo strumento per mostrare le proprie verità o fragilità, anche un esibirsi in scena, costruire, estendere il proprio conveniente, ragionato, vantaggioso storytelling.

Il confine tra confessione e celebrazione, tra autoritratto e agiografia è sottile, dipende dal soggetto o dall’autore del racconto tracciarlo, demarcarlo, al lavoro di chi guarda cogliere le differenze a volte sottili tra verità sofferta e menzogna mascherata da realismo. Dentro questi poli abitano mille sfumature, tra cui la veicolazione di temi forti, appetibili sul momento, che possono essere più o meno temi ombra nella narrazione. In Naomi Osaka, per esempio, che si rivela nel suo scorrere una docu-serie più sincera e sentita che furba, più necessaria alla persona che all’atleta/azienda, c’è quello del Black Lives Matter. Si tratta di un argomento importante, sentito, vissuto in prima persona da questa giovane atleta che cerca, sotto la direzione della regista Garrett Bradley – documentarista esperta, autrice anche del documentario Time, candidato Oscar 2021 – di arrivare alle sue verità personali attraverso una continua ed equilibrata mescola tra sportivo e personale che raggiungono il politico. Il racconto dell’atleta serve a far venir fuori la giovane donna,  che racconta – in modo credibile – il suo cammino di formazione umana. Ovvio che si parli anche del significato dell’essere sportivi professionisti a un certo, altissimo livello, di come, per esempio, si sia a capo di un team di lavoro, per cui una sconfitta può essere vissuta con la colpa di aver determinato il fallimento professionale di altre persone.

Si parla delle pressioni quotidiane, dei sacrifici e delle rinunce fatte per giungere a questo raro, prestigioso, pesante, punto di arrivo, dell’essere persona che deve sempre scendere a patti (costosi) con l’essere top player e star. E spinga, combatta, per non soccombere a questa realtà, come avviene oggi, nella vita intensa, ancora giovane, affascinante, complessa e non facile, di Naomi Osaka. Per questo la docu-serie che la racconta, pur non essendo un capolavoro di emozioni, offre spunti qua e là per riflettere e non è tempo sprecato saltare lo steccato dei suoi successi sportivi per assistere da vicino al suo interessante terzo tempo.

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