Re granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis

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Una storia, per chiamarsi storia, deve concedersi il piacere di tradire. Il racconto, per sua stessa definizione, non è affidabile: Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis ce lo dimostrano in Re granchio, primo lungometraggio di finzione con cui i registi sono sbarcati a Cannes 2021 nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”. Come ogni leggenda che si rispetti, anche questa nasce davanti al fuoco – più precisamente, in una cascina di caccia nei meandri della Tuscia. Gli eroi delle fiabe non sono veri eroi: e così Luciano (Ercole Colnago) potrebbe definirsi un semplice ubriacone, che semplice non è. Sospesa in una cornice esterna apparentemente senza tempo, la voce dei contadini traccia il percorso di un santo bevitore del tutto singolare e ci catapulta nella lontana Etruria di fine Ottocento. La cinepresa non si limita ad osservare la realtà, ma intende ridipingerne le fattezze, strizzando l’occhio a Caravaggio e finendo per creare un quadro dai contorni tardomedievali. Il sapore della pellicola è boccaccesco – dunque non sempre licenzioso, non sempre dichiaratamente buffo, ma dotto e irriverente anche nella tragedia. Il film sintetizza e amplia l’aneddoto popolare, trasformandolo in parabola e giocando con l’immortalità che ne contraddistingue la natura.

Immortale è anche Luciano, ucciso ben due volte e per due volte risorto. Figlio del medico di paese, il giovane uomo ha il classico aspetto di chi, in un’esistenza precedente, fu bello e fu ingenuo. Tornato nel borgo dopo un breve esilio (probabilmente in un manicomio), egli si riavvicina a Emma (Maria Alexandra Lungu, l’apicoltrice delle Meraviglie, 2014,  rievocate da Alice Rohrwacher): abbiamo l’impressione che la coppia riprenda le fila di un rapporto scritto solo a metà, ma le loro vite si perdono in un ipotetico prima su cui possiamo soltanto fantasticare. Intorno agli innamorati formicola un passato magico e oscuro: il villaggio si estende verso l’alto, in cima al monte sorge il castello del principe. I filistei tendono le proprie manacce sulle acque cristalline del lago, sui campi limacciosi, sulle bettole in cui i braccianti cercano rifugio. I personaggi sembrano animarsi da un’opera di Van Gogh, essi sono monodimensionali, non notano il drammatico spessore della loro miseria. Solo Luciano, pecora nera e avventuriero per volere divino (o autoriale?), possiede una sua profondità, egli non si limita a recitare un ruolo qualsiasi ma vorrebbe riscrivere il destino da cima a fondo. È proprio questa pungente intelligenza a far precipitare la situazione, e il nostro Robinson Crusoe si vede costretto a fuggire dopo aver perso l’amata.

Qui la storia si esaurisce, i cacciatori ritornano al loro bicchiere di rosso. Ma il cinema non si accontenta mai, e prosegue ciò che nella quotidianità finisce. Il secondo capitolo vede Luciano approdare letteralmente “in culo al mondo” (così recita il film), ovvero nella Terra del Fuoco, alla ricerca di un misterioso tesoro e di un’insperata redenzione. A questo punto i generi si sovrappongono e la favola diventa Western, addentrandosi nei cavernosi anfratti del suo raccontarsi, barcollando fra pirati, paludi velenose e vascelli abbandonati. La via crucis del protagonista inizia da un furto – che è poi come un lutto. Che è poi come un assassinio. Luciano seppellisce Luciano e diventa Don Antonio, confermando la propria vocazione d’eterno esule. Dimentichiamoci il vernacolare a cui abbiamo fatto l’orecchio durante i 45 minuti trascorsi in Toscana, oltre le Colonne d’Ercole si parla solo in spagnolo – o meglio, nella cantilena schietta e strascicata dei briganti argentini.

Rivoluzionario irrisolto, lucido bevitore, gesuita, mercenario, aristocratico straccione: il cantastorie errante di Zoppis e de Righi incarna l’essenza stessa del narrare, il dipanarsi e l’intrecciarsi della storia nella storia, del sapere nel sapere (o nel non sapere). L’avventura corsara con cui il lungometraggio si chiude non è che un’invenzione, forse frutto della capacità immaginativa di un carcerato. Eppure, il tesoro esiste davvero e si trova in fondo a un lago nascosto fra i monti – o magari all’epilogo di una vecchia novella. Per ritrovarsi, dunque, bisogna smarrirsi nella dissimulazione, donando all’ordinario un libero arbitrio che altrimenti non avrebbe. Così fa Luciano, recitando la storia del Re granchio. E così fanno i registi, portando il Sud America in Italia e l’Italia in Sud America: i paesaggi si somigliano, i dialetti s’intrecciano, le fibre della tela si allacciano fra loro. E i mangiatori di patate si tramutano in principi ricoperti d’oro.

In sala dal 2 dicembre 2021


Cast & Credits

Re granchio –  Regia: Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis; sceneggiatura: Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis; fotografia: Simone d’Arcangelo; montaggio: Andrés Pepe Estrada; interpreti: Gabriele Silli (Luciano), Maria Alexandra Lungu (Emma), Ercole Colnago (Oste), Bruno di Giovanni (Padre), Giovanni Morichelli (Poro Giovanni), Renato Sterpa (Pappagone), Severino Sperandio (Severino), Eccelso Cassanelli (Celso), Domenico Chiozzi (Galoppini), Ugo Farnetti (Don Ugo), Enzo Cucchi (Principe), Alessandro Cicoria (Paggio), Mariano Arce (Gauchito), Dario Levy (Lennox), Jorge Prado (Capitano), Daniel Tur (Ventura), Fernando Almirón (Don Antonio); produzione: Ring Film con Rai Cinema; origine: Italia, Argentina, Francia 2021; durata: 105’.

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