-
Voto
Le immagini montate in questo documentario, primo lungometraggio del regista bosniaco Ado Hasanović (che da diversi anni risiede in Italia, dove ha frequentato il CSC di Roma), ci fanno ripiombare di colpo in una delle più recenti tragedie che ha interessato il nostro vecchio continente: il conflitto in Bosnia-Erzegovina, dal 1992 al 1995. Quando si raccontano gli anni ’90, spesso non si fa il giusto riferimento a quell’immane evento di guerra civile che riguardò parte dei Balcani. Per chi scrive, stavano per iniziare gli anni del liceo, e in Italia si sarebbe assistito a un notevole passaggio epocale (si potrebbe dire storico) che concerneva figure, modi e metodi relativi alla rappresentanza e al sistema politici tout court. Appena l’anno precedente, esattamente l’8 agosto del 1991, al porto di Bari ci fu il noto sbarco di oltre 20.000 albanesi che, al di là del più pertinente fenomeno dell’immigrazione, può essere considerato a ragione il primo segnale di grandi movimenti che avrebbero destabilizzato, messo a soqquadro, da lì a poco, l’intera geopolitica di quei territori.

Ma torniamo al film, che porta con sé un altrettanto antefatto, proprio dell’opera, che diviene occasione oggi per tornare a ripensare il senso e il significato del cinema. Hasanović parte dal recupero di filmati amatoriali girati dal padre, durante lo svolgersi dei fatti bellici dell’epoca, grazie a una videocamera portatile (barattata per l’occasione) e di pagine del diario scritto sempre da suo padre. Sono dunque materiali che riemergono da un passato che non manca di farsi immediato presente, a cui egli aggiunge le riprese realizzate oggi, che hanno come protagonisti i sopravvissuti, in primis il padre stesso e la madre. Come filo conduttore per tenere insieme il tutto c’è la sua voce narrante che cerca di ricostruire gli avvenimenti mostrandone poi gli effetti nel corso del tempo.
Sono numerosi gli spunti che dalla visione di questo lavoro giungono allo spettatore. Forse si potrebbe partire dal confronto tra generazioni. Già il differente supporto delle immagini, quello analogico delle riprese amatoriali e quello digitale di oggi, sottolinea in forma simbolica la differenza. Da questa prospettiva, in I diari di mio padre sono i figli ad andare alla ricerca del terribile che hanno vissuto quando ancora erano bambini. E oggi, invece, si ritrovano adulti che parlano inglese, che hanno girato l’Europa per studiare e formarsi, e il loro ritorno si scontra con la realtà contemporanea del paese, abitata da una memoria tuttora viva che non può, non riesce a far dimenticare.

La macchina da presa di Hasanović torna a filmare anche i luoghi del massacro di Srebrenica. E sembra che quei paesaggi stessi, il “teatro di guerra” che vediamo nelle immagini amatoriali, nuovamente ripropongono quelle atroci atmosfere di sangue, dove oggi solo il sovraimpresso silenzio dei vivi, pieni di sguardi fermi come bloccati, appare per un attimo portare pace. E l’occhio del cinema, giustamente e con sana delicatezza, lì proprio si sofferma, offrendo una raffigurazione a cui forse solo il senso del sacro può permettersi di presenziare. Una volta il grande maestro del cinema russo, Andrej Tarkovskij, scrisse che in fondo “il cinema è un affresco fatto di tempo” (si cita qui a memoria). E allora qui sembra aprirsi un’ulteriore chiave possibile per ripensare questo film. Probabilmente solo il cinema riesce a poter “raccontare” al meglio quanto l’esserci è in essenza la relazione del tempo con lo spazio. “Fermare il tempo”, ovvero mostrare come anche se il tempo sia passato, in verità esso, proprio perché è passato, ha segnato in modo irreversibile forma e contenuto dello spazio. E così la discrepanza tra sembrare ed essere emerge insondabile. Oggi lì dove la vita sembra tornata a scorrere nelle faccende e nelle vicissitudini di tutti i giorni, invece, non oblia il vissuto, che patico per definizione, si fa quotidianamente alter ego. Nei volti del padre e della madre di Hasanović, proprio quando svolgono una qualsiasi semplice lavoro domestico (dar da mangiare agli animali, per esempio) o nel mentre di una passeggiata, si legge ciò che si è cicatrizzato ma non sanato. “Ed è subito sera”, senza soluzione di continuità. Anzi, per meglio dire, l’andare avanti, il procedere in fondo è appunto apparente. “Quando racconto di me e della mia famiglia nel contesto della guerra – afferma il regista – è come se stessi parlando di qualcun altro. Durante l’infanzia, è difficile comprendere appieno l’orrore che ti circonda, ma crescendo prendi coscienza della gravità di quegli eventi. Paradossalmente, è proprio questa consapevolezza che mi distanzia, facendomi sentire come un osservatore esterno. Attraverso il cinema riesco però a trovare un mezzo per elaborare queste emozioni e trasformarle in qualcosa che altri possano capire e sentire”.
Sì sì, proprio così, cantava… C’era la nave, continuava. Però, non a caso la neve, sembra farci vedere Hasanović, non è più e mai la stessa.
I diari di mio padre; Regia: Ado Hasanović; sceneggiatura: Ado Hasanović, Armando Maria Trotta, Anna Zagaglia; fotografia: Ado Hasanović; montaggio: Esmeralda Calabria, Elisabetta Abrami, Desideria Rayner; suono: Daniele Viti, Matteo Bendinelli, Antonio Giannantonio; Musica: Iosonouncane; produzione Carlo Degli Esposti, Nicola Serra, Antonio Badalamenti per Palomar, Mediawan Rights; Origine: Italia/ Francia, 2024; Durata: 97 minuti.
Domenico Spinosa
