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Voto
Una madre di Stefano Chiantini è un film che, finalmente, riporta lo sguardo del cinema italiano su una realtà quotidiana, sotterranea, invisibile. Quella della precarietà sociale e lavorativa che diventa espressione di un malessere esistenziale nella sua totalità, che passa per il corpo, le emozioni, il contatto, le relazioni. Non stupisce, ma in parte sorprende, che la struttura del racconto segua passo per passo quella di Rosetta, opera capitale dei fratelli Dardenne i quali, già nel 1999 avevano dato una centralità al volto e alla voce di una simile paria; una ragazza bianca, belga, europea che abita in una roulotte con la madre, sopravvive di occasionali lavori in nero, cammina e corre per una città marginale, notturna e albeggiante, alla ricerca ossessiva e famelica di una sicurezza temporanea, senza neanche l’orizzonte di un futuro, sulla soglia di un mondo in procinto di esplodere. La protagonista di Chiantini, nella Roma di oggi, ha un nome quasi in contrappasso, Deva, e le fattezze, la tempra e gli occhi intensi di Aurora Giovinazzo ( già popolana e passionaria combattente, in versione fantasy, di Freaks out di Gabriele Mainetti).

Come la Rosetta incarnata da Emile Dequenne, passa la giornata a procurarsi il denaro sufficiente per arrivare a domani, e a un certo punto anche per lei succede qualcosa che potrebbe cambiare il corso delle cose. Un incontro che la costringe ad aprirsi verso il sentimento e la tenerezza, oltre che farle scoprire una forma di altruismo e di generosità in ribaltamento alla convinzione di una miseria contrastabile solo dalla schiva autosufficienza e dalla diffidenza. Per Deva questa graduale rivelazione ha il peso specifico di un bambino, nipote di Carla, l’accuditiva e un po’ dolente proprietaria di una pescheria che l’assume dopo averla vista chiedere una lavoro per per il mercato del pesce. Ma non si tratta della brusca, funzionale, meccanica contrattazione a voce proposta oppure negata dagli incattiviti e umorali commercianti romani, bensì dell’atteso e inaspettato ingresso dentro un processo di maternage del quale Deva non ha fatto esperienza come figlia e sembra non voler fare esperienza nell’altro senso (ha appena abortito). Così la solitudine abitata e portata nella ricerca di una direzione si riflette nella scelta, prima subita e poi messa in atto con un moto di coscienza, della maternità, a confronto, talvolta abbastanza schematicamente, con vari modi di essere madre. La dissolutezza autodistruttiva di quella di Deva, il calore protettivo e bianco della tenera Carla, in contrasto con l’istinto fragile e sperduto della figlia tossicodipendente che non può prendersi cura del bambino che ha partorito; e il viaggio di Deva alla fine confluisce proprio nell’accedere a questa dimensione, con le imperfezioni, gli ostacoli e i lividi- in primis, al pari di Rosetta, quelli del corpo, della pelle, dei sensi- di essere, tra le tante possibilità, una madre (laddove invece il personaggio dardenniano sospendeva il respiro e il pianto liberatorio nello spazio tra la rinuncia alla vita e il movimento verso l’altro). Deva può proiettarsi, chiaramente e alla luce del sole, in un tempo del dopo, richiamare la responsabilità che non è solo rispetto a se stessa, ma riguarda un altro essere umano, una rapporto per altro non vincolato da un biologico legame di sangue bensì da una risonanza biografica, una pratica affettiva, un situazione contingente elevata a opportunità e finestra su una (nuova) vita. La regia di Chiantini non sovraccarica le immagini di un senso che va al di là di un misurato realismo, anche se vibra sottopelle un crescendo per il quale il volto di Deva traspare dalla cupezza al chiaroscuro fino alla luminosità, o quantomeno uno spiraglio verso di essa. La mdp sta dalla sua parte, ma senza per questo giudicare con la mano pesante il contesto a lei intorno, fatta eccezione per la forse troppo buona e comprensiva Carla/Angela (Finocchiaro)/Angelo, che però mantiene la risolutezza di tenere lontana dal nipote – in un modo che neanche Deva inizialmente comprende – la sua stessa figlia. L’aspetto sconcertante di questa descrizione dal e del basso è riscontrare come e quanto non sia cambiato nulla dai tempi nei quali Rosetta si aggirava determinata e disperata per i non luoghi del lavoro clandestino. È come se chi viene cacciato ed esiliato dalla cosiddetta società civile, dalla comunità che richiede per ciascuno un ruolo, uno status e un’identità economica e sociale definibile, catalogabile e riconoscibile, sia rimasto fuori dalla contemporaneità, anche quella della propria generazione.

Deva è dunque tagliata fuori da una rete social di contatti che circolano con estrema velocità e accessibilità tra i ragazzi e le ragazze sue coetanee, perché la tecnologia non è democratica e orizzontale, ma presuppone un costo ed un prezzo non praticabili nel momento in cui ogni risorsa è finalizzata alle necessità basiche. In corrispondenza, i bisogni non ancora sogni rimangono al livello terreno, carnale, nucleare: la casa, il cibo, un piccolo corpo da abbracciare. A volte ci si aspetterebbe qualche scarto di intensità maggiore, suggestionati ancora nel ricordo dalla faccia larger than life in primissimo piano di Rosetta, sconfinante e strabordante i limiti dello schermo e dello sguardo, ma il mezzo tono era probabilmente più appropriato ad una figura femminile meno combattuta e dilaniata tra assolutismo e immanenza. La differenza sostanziale risiede al contrario in uno scarto di consapevolezza, nella certezza di trovarsi su un territorio di macerie e di aggrapparsi, prima di lasciarsi sprofondare nel “buco nero”, a un laicissimo prossimo tuo che corregge le sembianze di un rimorso o di una negazione. Nella sottigliezza in contrappunto di un mood quasi fiabesco -anche qui dialogante con un’altra opera dei Dardenne, Il matrimonio di Lorna, dove la giovane immigrata albanese metteva in salvo il proprio bambino non ancora nato (o forse solo immaginato come forma di resistenza/sopravvivenza) – emerge la vividezza e la centralità di una storia di cui sembrava che il nostro cinema non potesse o volesse più farsi carico, se non declinandola e circostanziandola nel recinto della questione della cittadinanza straniera.
Un ritorno a comprendere che vedere il volto dell’altro/loro, implica prima di tutto il fatto di saper vedere il proprio/nostro.
In sala dal 19 novembre 2024
Una madre – Regia e sceneggiatura: Stefano Chiantini; fotografia: Claudio Cofrancesco; montaggio: Luca Benedetti; musica: Piernicola Di Muro; interpreti: Aurora Giovinazzo, Angela Finocchiaro, Francesco Salvi, Michele Eburnea, Marilena Anniballi, Leonardo Donati; produzione: World Video Production, Rai Cinema, Bling Flamingo; origine: Italia, 2024; durata: 80 minuti; distribuzione: World Video Production.
