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Voto
Chissà cosa avrebbe pensato Simone Veil di questo film, con il suo occhio sempre molto attento e critico nei confronti della rappresentazione cinematografica della Shoah, e del ruolo della Francia nel conflitto mondiale. Di Operazione Apfelkern, (Renè Clement, 1946) disse che il cinema aveva esagerato il coraggio dei francesi sotto l’Occupazione; riservò del resto la critica opposta ad un film come Il dolore e la pietà di Marcel Ophuls (1969), sceneggiato da André Harris e Alain de Sèdouy, che aveva come sottofondo la cronaca di Clermont-Ferrand sotto l’Occupazione, presentata come città molto favorevole al collaborazionismo, i francesi dipinti come carogne e codardi, in un film, a suo parere, sbilanciato e tendenzioso. La vita è bella (1997) di Benigni destò molte ovvie perplessità in Simone Veil, mentre Lacombe Lucien (1974) di Louis Malle le parve impreciso, con immagini poco verosimili.
Quanto alla resa cinematografica della Shoah, l’impresa mi sembra – disse – quasi impossibile.
E lo ha capito bene Jonathan Glazer, regista capace di realizzare un film che esprime l’oscenità e la mostruosità tramite l’astratto e il metafisico, confezionando un’opera, La zona d’interesse, che, seppur non esente del tutto da difetti, rimane un lodevole tentativo di alludere, in maniera priva di letteralità, ad un rimosso psichico troppo impronunciabile per poter essere messo in scena in maniera convenzionale.
Sembra non averlo capito, invece, Olivier Dahan, il regista di questo Simone Veil – La donna del Secolo, che insiste nel mostrarci scene di deportati e di campi di sterminio girate con occhio compassionevole, fotografate in maniera estremamente pulita, recitate con un’enfasi quasi inaccettabile, accompagnate da un incessante sottofondo di pianoforte da melodramma. La rappresentazione della Shoah è uno dei pochi temi su cui paiono ancora attuali la concezione ontologica e la posizione di Andrè Bazin sulla moralità dell’immagine, che non mai è una questione di contenuto, ma di forma. Non ne abbiamo la certezza, ma qualcosa ci dice che Simone Veil avrebbe trovato profondamente contraffatta questa rappresentazione.

Il film si presenta come un biopic dall’impostazione piuttosto classica e rigorosa, che ripercorre con buona fedeltà le varie tappe dell’incredibile esistenza di questa donna: figlia di genitori ebrei francesi ma profondamente laici, deportata assieme alla madre e a una delle sorelle a 17 anni (prima dei 17 e dopo i 40 si veniva direttamente fatti fuori), sopravvissuta all’esperienza dell’Olocausto, è stata capace di combattere contro l’orrore della memoria riprendendo a studiare, diventando magistrato e infine ricoprendo apicali ruoli in politica. In un’epoca in cui gli uomini controllavano profondamente la struttura sociale e culturale del paese, ha portato avanti importantissime battaglie per i diritti delle donne, prima fra tutte la legge, che prese il suo nome, per legalizzare e garantire il diritto all’aborto in Francia.
Il film prende a piene mani dai testi scritti da Simone e raccolti da David Teboul, contenuti nel libro Alba a Birkenau, ripuliti e leggermente aggiustati, ci pare, per assecondare un certo tipo di sensibilità che probabilmente è propria del regista: ad esempio, quando Simone vuole diventare avvocato, il marito Antoine si oppone, è vero, ma il film omette di aggiungere che è il marito stesso, in seguito, a consigliarle la professione di magistrato. Diventare magistrato viene così raccontata come l’ennesima decisione presa da Simone contro tutto e tutti, falsando le sfumature di uno spirito dell’epoca che presentava numerose contraddizioni all’interno del suo maschilismo intrinseco.
La madre di Simone viene mostrata subito debole, malata e cadente non appena la deportazione avviene, ma la verità è che si ammalò un anno dopo, e fino a quel momento è stata la più grande fonte di coraggio e conforto per le due ragazze. Queste ripetute operazioni di indebolire o banalizzare le figure che hanno attraversato l’esistenza di Simone per esaltare il suo coraggio e la sua forza ci paiono piuttosto manieriste ed evitabili. Per non parlare della sottile patina di perbenismo che ci pare di rilevare in certi altri momenti: l’amica di Simone, Marceline, viene mostrata mentre si rilassa assieme a lei su un letto fumando una sigaretta, la scena parafrasa un incontro che le tue amiche ebbero con David Tedoul; peccato che nella realtà, in quel frangente, Marceline stesse fieramente fumando marijuana. Piccoli elementi, quasi sfumature, certo, ma che lasciano intravedere un certo puritanesimo e un’intenzione morale nel racconto, che non andrebbero confusi né associati con l’estremo rispetto ed educazione di cui si faceva portatrice Simone Veil.
Il film corre su due binari paralleli in cui vengono rievocati episodi della carriera politica, assieme a momenti cruciali che hanno determinato la sorte di Simone nei campi, tra i quali una salvifica simpatia per lei da parte di una guardia, che le permise, assieme alla madre ed alla sorella, di essere trasferite in un campo meno brutale dove sarebbero potute, con un po’ di fortuna, sopravvivere.
La parte iniziale contiene una scena notevole, di stampo quasi surrealista, in cui la protagonista viene tartassata da grida di uomini ostili – rappresentanti dei suoi oppositori politici e sociali – mostrati come volti su sfondo nero che latrano insulti e proteste, personificano la violenta opposizione che Simone ricevette durante le discussioni sulla storica Legge Veil del 1975, quando fu attaccata non solo politicamente, ma anche a livello personale, con insulti sessisti e minacce – è la scena che racchiude uno dei momenti più stilizzati e simbolici della pellicola. Dopo questo iniziale momento di estro, però, il film non ritrova più la freschezza delle intuizioni e scivola lentamente e inesorabilmente nel racconto doloroso e nostalgico, ammorbidito e retorico.

Si passa quindi, dopo la già menzionata Legge Veil sull’interruzione di gravidanza, all’impegno europeo: diventa la prima presidente del Parlamento Europeo nel 1979, promuovendo l’unità dell’Europa e la difesa dei diritti umani. La sua visione è segnata dall’orrore vissuto nella Shoah, che la porta a combattere per una società più giusta e pacifica, cerca il contatto con i deboli e i sofferenti, sì pone sempre in loro difesa. La retorica qui è un male necessario: che la nobiltà politica e gli intenti di Simon Veil siano stato qualcosa di straordinario è un dato di fatto che va giustamente raccontato e celebrato. Simone Veil rimase una donna forte e determinata fino agli ultimi anni della sua vita. Il suo ingresso nel Panthéon nel 2018, accanto ai grandi della nazione francese, suggella il suo impatto sulla storia.
A livello familiare vengono elencati sbrigativamente tutti gli elementi più significativi: la sorella Denise, che militò nella Resistenza, (con cui fa giusto due chiacchiere, ma va bene così, il film è già lungo, e se vogliamo metterci dentro tutto e tutti questo è il risultato); il marito, Antoine Veil, anch’esso figura importante, di cui si mette in luce l’orgoglio con cui la supportò fino alla fine, ma sarebbe stato interessante anche raccontare la fine ironia e la forte consapevolezza di essere stato anch’egli un uomo di spessore (alla domanda Lei è il marito di Simone Veil?, amava rispondere ironicamente: No, Simone Veil è mia moglie). Si sarebbe potuto porre maggiormente l’accento sulle modalità dialettiche con cui sicuramente i due si confrontavano, si è preferito, invece, utilizzare il marito prima come rappresentante istruito di uno spirito ottusamente maschilista, poi come saggio sornione e pacato consigliere.
Brava ed adatta al ruolo l’attrice che presta il volto a Simone, l’eccellente Elsa Zylberstein, misurata ed elegante, espressiva ma mai volgare o melodrammatica; leggermente leziosa invece, la sua controparte giovane (Rebecca Marder). Non va tanto meglio al marito, la cui versione giovane (Mathieu Spinosi) risulta bidimensionale e macchiettistica (anche a causa di una mediocrità del dialogo durante una scena in cui si profonde ad elogiare la musica di Debussy), mentre quella da adulto (Olivier Gourmet) è piuttosto inconsistente ma perlomeno adeguata.
Della fotografia e delle musiche abbiamo già parlato. A mio personalissimo parere, si tratta di un trattamento che fa troppe concessioni al patetismo.
Riprendiamo quindi l’opinione che Veil ebbe del film di Lacombe Lucien: per quanto riguarda tutte le parti ambientate nei campi di sterminio le immagini sono ingannevoli, l’intento registico, narrativo, e la fotografia sono disturbanti, e i movimenti di macchina quasi osceni. Per tutte le altre parti invece, quelle che mostrano la vita di Simone dopo essere sopravvissuta, assieme alla sua carriera politica, siamo sulla sufficienza, senza infamia e senza lode.
In sala dal 30 gennaio 2025.
Simone Veil – La donna del Secolo (Simone, le voyage du siècle) -Regia e sceneggiatura: Olivier Dahan; fotografia: Manuel Dacosse; montaggio: Richard Marizy; musiche: Olvon Yacob; interpreti: Elsa Zylberstein, Rebecca Marder, Élodie Bouchez, Judith Chemla, Olivier Gourmet, Mathieu Spinosi; produzione: Marvelous Productions, France 2 Cinéma, France 3 Cinéma; origine: Francia, 2021; durata: 140 minuti; distribuzione: Wanted.
