The Breaking Ice di Anthony Chen

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È veramente un film al calor bianco questo The Breaking Ice, passato due anni fa  al Festival di Cannes  nella sezione “Un certain regard” e giunto solo ora in sala, quantomeno in Italia: nonostante l’ambientazione invernale e nevosa in una cittadina di montagna situata al  confine tra Cina e Corea del Sud, con una sottolineatura del  bilinguismo cino-coreano  che restituisce anche la sensazione di spaesamento e confusione dei personaggi, il triangolo relazionale  intorno al quale ruota il racconta è attraversato da un’intensità di sentimenti e desideri . Si tratta di un ménage piuttosto classico, due ragazzi entrambi attratti e infatuati di una ragazza che è il punto nevralgico, il crocevia affettivo, il train d’union di un micro-microcosmo che cerca di sopravvivere a se stesso, in una società portata a normare in maniera direttivo finanche lo spazio privato. La situazione di partenza sembra trasportata da un film di Edward Yang, con il giovane occhialuto Haofeng che partecipa laconicamente e solitariamente ad rumoroso e corale matrimonio, dal quale presto però si stacca per perdersi, in maniera ancora più anonima, tra i turisti di un tour in pullman condotto dall’incantevole Nana. Il clima, quello psicologico ed emotivo prima che ancora ambientale, appare essere raggelato e imploso nell’atteggiamento sfuggente ed evasivo del ragazzo, in fuga da un’infelicità urbana (viene da Shangai), ma dolente nella fitta, concreta e simbolica,  che si nasconde dietro il sorriso formale di Nana: un dolore al piede che si rivelerà fatale cicatrice e impedimento tangibile alla stroncata carriera che l’aspettava come talentuosa pattinatrice. A loro, più defilato, silenzioso e in una posizione di osservazione, si unisce Xiao, costretto a fare i conti con la crisi post pandemica della sua attività di ristorazione.

Da questo triplice incastro non si produce però un chissà quale atteso cambiamento nelle vite dei protagonisti, siamo fuori da qualsiasi prospettiva edificante o salvifica; Haofeng probabilmente evita il suicidio a cui il proprio stato di indolenza e atarassia lo condurrebbe, ma ciò non comportamento il ribaltamento da una condizione che vuole rimanere sospesa e interrotta al voler agire e sistemare le cose abbondonate in un altrove che rimane tale, un fuori campo narrativo, temporale e spaziale. Lo sguardo di Anthony Chen cerca di rimanere attaccato ai corpi, agli ambienti, ai respiri, riducendo all’osso i dialoghi e le parole, come se ci trovassimo in un mondo nel quale il linguaggio è stato ormai consumato e prosciugato, e l’unico strumento per comunicare rimane il movimento nomade, lo spostarsi in continuazione, preferibilmente nel tempo emblematico dell’attesa, la notte, da un locale all’altro senza soluzione di continuità che non sia il fare esperienza del proprio senso di vacuità e di inadeguatezza.

Haofeng, Nana e Xiao si riconosco proprio in questa immanente necessità di stare in un dinamismo a vuoto, che trova corrispondenza e risonanza nel paesaggio circostante, esplorato fino ai meandri del suo confine più selvaggio sopra la cima di un monte a strapiombo su un lago, fino all’incontro, venato forse di una poeticità abbastanza semplicistica, con un orso che “cura” la ferita al piede di Nana. Un segno di pacificazione e di accettazione tra la nevrosi limitante  dell’inadeguatezza e la partecipazione incondizionata al flusso dell’esistenza. Un aspetto detto con più efficacia dalle due migliori scene del film,  nelle quale Haofeng e Nana fanno l’amore con un coinvolgimento sempre più forte, intenzionati a toccarsi e a “venire” l’uno verso l’altra, a superare quell’alone di indolenza, paura e freddezza nel quale sembrano essere inizialmente avvolti. Si tratta letteralmente di interrompere la catena di montaggio della produzione di ghiaccio, alla quale la località nella quale è ambientata la vicenda per posizione geografica e climatica è destinata com’ è mostrato nella sequenza iniziale, e di stabilire una connessione diretta , immediata, non filtrata da fantasmi o proiezioni, tra gli individui. Peraltro la struttura fortemente classista e gerarchica della società cinese limita la possibilità di costruire una forma di comunità più estesa dal basso, e dunque ogni seppur minimale basica condivisione diventa l’espressione fuori norma e fuori schema di una resistenza, magari spontanea e  non intenzionale, a un sistema ; tra l’altro Haofeng ben incarna questa generazione di giovani alienati e storditi dalla metropolitana ansia della produttività economica, e schiacciati dalla funzionalità e dalla finalità della loro posizione professionale, anche se Chen evita eccessi moralistici o sottolineature didascaliche da questo punto di vista.

Semmai il film soffre a tratti di una costruzione che vorrebbe palesemente riecheggiare l’originaria impronta nouvelle vague del ménage a trois, in particolare nelle sua versioni più celebri ed iconiche: la sequenza in cui Haofeng, Nana e Xiao rubano un volume a testa e fuggono di corsa dalla libreria per vedere chi arriva primo, non può non evocare la vitale gara fino all’ultimo respiro  sul ponte parigino tra Catherine, Jules e Jim e la successiva ripresa che Godard ne fece, omaggiando l’allora solidale amico Truffaut, facendo scorrazzare la triade furfante e scanzonata di Bande à part per le stanza del Louvre. Un immaginario che è passato sotto il disincanto post ideologico descritto agli albori del nuovo secolo  con ben altre oscillazioni tra lucidità e affondi mélo dal taiwanese Hou Hsiao-hsien in Millenium Mambo (2001), sull’onda di quella nouvelle vague asiatica che ha raccontato e continua a raccontare lo status sempre più da angeli perduti della loro meglio gioventù.  Talvolta  la rappresentazione di questa  inermità sconfina in una zona blanda e ripetitiva, non sempre innervata da un assetto visivo in grado di mantenere alta la tensione (la scena della montagna resta comunque la più compiuta e affascinante), e la figura di Xiao è di fatto quella meno curata e maggiormente avulsa dall’interazione a tre. Ma prevale di fondo una sincerità e un amore nei confronti di questi personaggi, che vengono abbracciati e sostenuti dallo sguardo del regista, anche e soprattutto laddove stanno per cadere. E se lo spezzare il ghiaccio non sta a significare solo l’aprirsi all’incontro e all’accoglienza delle ferite altrui, il cambio riguarda pure la destinazione d’uso: un cubetto non galleggia solo dentro un solitario cocktail, ma viene scambiato di bocca in bocca. Una nuova maniera di scambiarsi il calore del proprio afflato.

In sala dal 13 marzo 2025.


The Breaking Ice (Ran dog )Regia e sceneggiatura: Anthony Chen; fotografia: Yu Jing-pin; montaggio: Hoping Chen, Soo Mun Thye; musica: Kin Leonn; interpreti: Zhou Dongyu, Liu Haoran, Qu Chuxiao, Wei Ruguang, Liu Baisha; produzione: Meng Xie, Anthony Chen per Canopy Pictures, Huace Pictures; origine: Cina, 2023; durata: 97 minuti; distribuzione: Tucker Film.

 

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