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Voto
Realizzare la trasposizione cinematografica di un racconto o di un romanzo di Stephen King è sempre un rischio, perché costringe a confrontarsi con una scrittura, uno stile, un immaginario così radicati e diffusi nel lettore e potenziale spettatore (e intorno alla figura di King c’è un vero e proprio culto) da creare aspettative in un senso o nell’altro, nel pretendere fedeltà alla lettera e nel richiede – come dovrebbe essere – l’alterità creativa ed espressiva del testo filmico rispetto a quello letterario. Dopo il discontinuo Longlegs, che si prendeva piuttosto sul serio nel mescolare traumi infantili, possessioni demoniache e serial killer bigger than life, Oz Perkins sceglie nell’adattare il racconto The Monkey (contenuto nella raccolta Scheletri del 1985) di sterzare nella direzione decisamente dei toni della commedia nera, accentuando un aspetto che è sempre presente in King, una certa ironia anche picaresca e avventurosa verso il macabro, l’imprevedibile, lo spaventoso che conduce fuori dalla sfera dell’ordinario e del familiare o, piuttosto, lo perverte e lo dissacra. È quello che succede ai due fratelli gemelli Hall e Bill che ricevono il classico dono maledetto ( e The Devil’s Gift è il titolo di un’altra misconosciuta versione cinematografica della stesso racconto, diretta da Kenneth J. Berton nel 1984), precedentemente appartenuto al padre defunto e che ha le sembianze, già di per sé non proprio rassicuranti, di una scimmia in procinto di suonare un tamburo; un meccanismo attivabile facendo girare una chiave, dal quale però possono derivare una serie di conseguenze mortali per uno o più soggetti che gravitano intorno al ghignante pupazzo.

La particolarità della mattanza consiste però nel non poter indirizzare, da parte di chi inserisce la chiave, la final destination del suo potere contro una persona specifica. Esattamente come succede nella vita, la morte colpisce in maniera casuale e indiscriminata, e il saltimbanco scimmiesco a forma di giocattolo che ne sovrintende in automatico le efferate e variegate esecuzioni, ne è solo il custode, la liminale raffigurazione plastica e tridimensionale, il memento sempre sull’altolà. Si tratta di un lasciarsi a tutti gli effetti prendere la mano da un senso di indiscriminata onnipotenza, visto che, apparentemente, a salvarsi è chi fa scattare il fatale rullo di tamburo. Questa perversa bomba ad orologeria finisce nel solco del già problematico e disfunzionale rapporto tra Hall e Bill, contraddicono la simbiosi gemellare che li accomuna e sono invece, archetipici Caino e Abele post psicanalisi, l’uno l’opposto dell’altro: complessato, introverso, tormentato il primo, prepotente, sicuro di sé e sadico l’altro. All’inizio è l’impacciato Hal ad utilizzare in modo sconsiderato la scimmia, provocando tra le altre, involontariamente, la morte della madre amatissima, dalla quale si succederanno poi una serie di recriminazioni, sensi di colpa, patti traditi e faide vendicative tra i due fratelli, nella spirale di una talvolta grottesca e parossistica reazione a catena. La difficoltà sta proprio nel mantenere questi due piani: il susseguirsi in un crescendo di assurdità delle morti “accidentali”, tra cui una donna decapitata in un ristorante di sushi e un’altra fulminata ed esplosa da una scarica elettrica durante un tuffo in piscina, e il conflitto familiare che ne è di fatto la miccia scatenante, la deflagrazione di un regolamento di conti che non può essere confinato nell’immaginario ristretto di una cameretta o di uno scantinato, ma che riguarda la comunità che vi si muove intorno intorno. Il problema è che Perkins sta troppo attaccato al meccanismo del racconto, alla sua progressione drammatica per accumulazione di situazioni alla stregua di siparietti da post moderno teatro del Grand Guignol, riduce la tensione, o meglio l’alternarsi di essa con la liberatoria risata di fronte alle derive assurde e patetiche in cui può manifestarsi la fine della vita, ai minimi termini, depotenziando il dispositivo orrorifico e divertente che questo film vorrebbe in teoria essere.

Certo, delle soluzioni, soprattutto per quanto riguarda le accelerazioni del montaggio nella scene di morte quasi da slaptisck comedy contaminata dall’iperrealismo tarantiniano (la morte della zia di Hall e Bill ricorda, per combinazione di elementi, quella dell’appena oscarizzata Mikey Madison in C’era una volta a Hollywood), sono molto godibili e il ritmo, in questa direzione, regge fino alla sua destinazione (quasi) finale. Nella migliore delle ipotesi Perkins ha voluto fare un’operazione speculare a Longlegs, che invece si costruiva su un architettura maggiormente elaborata dal punto di vista delle psicologie dei personaggi, e su un respiro più lungo, di attesa, di ricerca, di contemplazione prima che di azione. La stessa maschera di Nicholas Cage nel ruolo del villain del titolo, pur nell’eccesso istrionico di makeup e di performance, possedeva un nucleo torvo, disturbante, non conciliante: un personaggio che faceva paura e non faceva ridere. The Monkey, che occupa la stessa posizione su questa terra di Longlegs, ovvero essere il tramite e il catalizzatore del male (inteso però più fatalisticamente come accanita maledizione che come male compulsivamente agito), non riesce mai ad assurgere ad uno status veramente iconico, minaccioso, perturbante. È un oggetto funzionale a far progredire l’intreccio, o a inculcare la malvagità in particolare nella figura di Bill divenuto, da adulto, lo psicopatico e sociopatico che il suo carattere da ragazzino lasciava intravedere. Questo avviene nel momento in cui ci viene messa a disposizione la possibilità di giocare con la vita e con la morte? La casualità con cui colpisce la scimmia può essere introiettata e diventare una forma di volontà omicida, di affermazione di se stessi per il tramite di un simile malsano potere? Non a caso, Hall, il gemello “buono”, rifugge da un simile contagio, facendo i conti, rispetto alla propria fallacità come marito e padre una volta cresciuto, con i traumi reali della sua infanzia. Domande e questioni che sarebbero potute essere approfondite senza sacrificare l’aspetto spettacolare, e restando dentro la tracciabilità di una possibile poetica in itinere di Perkins (chiaramente la famiglia, prima le madri ora i padri, come forma corruttibile e deperibile dall’interno è uno dei temi del suo cinema), e che invece si perdono nel tentativo, talvolta riuscito e talvolta no, di far ridere e di stemperare, incluso il ridondante finale, senza lasciare quel retropensiero di amarezza, di dubbio, di disagio che l’horror, pur in digressione da farsa, non dovrebbe mai dimenticare. Come celebrare un lutto andando a ballare.
In sala dal 20 marzo 2025.
The Monkey – Regia e sceneggiatura: Oz Perkins, dal racconto La scimmia di Stephen King; fotografia: Nico Aguilar; montaggio: Graham Fortin, Greg Ng; musica: Edo Van Breemen; interpreti: Theo James, Christian Convery, Tatiana Maslany, Elija Woody, Colin O’Brien, Rohan Campbell, Sarah Levy ; produzione: James Wan, Michael Clear, Dave Caplan, Brian Kavanaugh-Jones, Chris Ferguson; origine: Usa; durata: 98’; distribuzione: Eagle Picture.
