Opus-Venera la tua stella di Mark Anthony Green

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Se consideriamo la facilità con cui si producono e si distruggono miti, culti, dive e divi, dee e dei all’interno dei palinsesti mass mediatici contemporanei, delimitati dalla ipercinetica fruizione e consumazione di un reel o di una story su Instagram, l’assunto di OpusVenera la tua stella, scritto e diretto da Mark Anthony Green, ci riporta ad una dimensione esperienziale che sembra essere derivata direttamente dagli anni ’70. Fin dai titoli di testa, vediamo dunque una rockstar esibirsi sul palcoscenico, ma non è tanto quello il focus dello sguardo del regista, bensì il controcampo degli spettatori fans devoti che saltano e si esaltano ripresi singolarmente e stagliati sullo sfondo nero di una platea alla quale ci si rivolge fuori dall’anonimato, dando del tu ai soggetti che la compongono. Nomi e cognomi sono anche quelli che recluta Alfred Moretti, una leggendaria pop star degli anni ’90 che, dopo aver accumulato una fortuna con dei concept album musicalmente ibridi tra elettronica, post new wave e funky  (tra gli autori della colonna Nile Rodgers, fondatore e chitarrista degli Chic) e dai testi alquanto ermetici, si è ritirata  in una sperduta località desertica e ha fondato una comunità di adepti, chiamati i “Livelissti”. In occasione dell’uscita-evento del suo nuovo album, Cesar’s request, e della prima intervista rilasciata dopo trent’anni di silenzio, invita dunque una selezionata manciata di giornalisti musicali, includendo a sorpresa, a parte dei blasonati nomi in qualche maniera a lui correlati, Ariel, giornalista alle prime armi e in cerca di una storia tutta sua,  in teoria semplice accompagnatrice e assistente del suo vanesio ed egocentrico capo.

Non si tratta però semplicemente di un’esclusiva preview in anteprima del disco in promozione e nemmeno di testimoniare la stravagante esistenza quotidiana della grande “famiglia” fondata da Moretti. Nel più congeniale meccanismo del cinema thriller e horror (un esempio tra i più recenti è l’allucinato Midsommar, in cui Ari Aster faceva sprofondare un gruppo di studenti americani nell’abbagliante terrore senza tenebre di un villaggio nordico), il resort a tema autobiografico di Moretti, completamente setacciato da videocamere e attraversato da sorveglianti ombra che seguono ciascuno un determinato ospite letteralmente step by step, diventa il palcoscenico e il tempio di una performance e di un rito che, per essere visti e raccontanti, hanno bisogno di superare il limite dell’osceno; l’esibita crudeltà di una mattanza sanguinosa,  che esplode anche in modalità inaspettate e brutali, ai danni degli ignari invitati, ancora troppo persi nei codici mainstream che confondono una potenziale carneficina per un grottesco party, diventa la campagna pubblicitaria estrema per vendere, nelle intenzioni del megalomane Moretti, non tanto un prodotto musicale ma una vera e propria filosofia di vita e soprattutto di morte. L’invito iniziale sembra cosi estendersi dalla ristretta cerchia di un’ élite all’umanità intera, ormai diffusamente persuasibile di una versione piuttosto che di un’altra della storia di “tendenza”. Dietro la struttura della commedia nera, Green si confronta dunque con delle questioni abbastanza complesse e attuali, in un contesto comunque fuori dal tempo. Nel microcosmo di Moretti la prima cosa ad essere bandita sono proprio i cellulari, costringendo Ariel a registrare mnemonicamente il succedersi delirante degli avvenimenti e a trascriverlo poi nella forma del romanzo best seller, con tanto di ospitata in un talk show, momento iconico di una certa televisione degli anni 80 e 90. Probabilmente la sovrapposizione di forme diverse di comunicazione è mirata anche a sottolineare la valenza trasversale e ciclica, nel corso delle epoche, di figure come quella di Moretti; un ritorno alla basica messa in atto di una manipolazione di massa sempre più depravata e spregiudicata.

Un grosso problema sta però nel modo in cui, in particolare nella seconda parte, gli spunti interessanti vengono messi sulla scena e integrati con la riflessione critica della satira. Non si sente e non si capisce fino in fondo il reale perché delle azioni di Moretti, come se ci fosse una confusione scatenata dalla troppa carne al fuoco, con una regia non in grado di controllare le reiterate e ripetitive sequenze di fuga e inseguimento con precisione, efficacia e compiutezza. Alcune soluzioni colpiscono per il loro macabro mood, come lo spettacolo dei bambini della setta, che si traduce nella storia di Billie Holiday raccontata attraverso delle marionette con le sembianze di topi scuoiati… la rappresentazione metalinguistica di un circo mortifero e di una pantomima di demoni, o anche la faccia spogliata della patina e dell’ipocrisia, dalla prospettiva senza filtri dell’infanzia, di una società dello spettacolo cannibalesca, logorante. Il comportamento di Moretti si dovrebbe allora leggere in questa chiave, giustificandone, in un’ottica capovolta, le azioni atroci come smascheramento e sventramento della farsa dello star system. Da qui il suo affidarne la restituzione alla schiettezza ancora non corrotta di Ariel, l’unica ad avvertire immediatamente il disagio, il pericolo e la stranezza di quella situazione in quanto non obliata dalla necessità autoriferita e alienata di apparire e di farsi vedere nonostante tutto. Collegamenti e rimandi che tendono a perdersi nell’incerto incedere della parte esplicitamente d’azione e che sono tenuti insieme in particolare dalla performance sibillina di John Malkovich: il suo Moretti è un po’ anche la caricatura e il simulacro di se stesso, del suo essere in bilico tra ascetismo intellettuale e l’aver partecipato al caravanserraglio di Hollywood, e a tratti ricorda il Malkovich posseduto dal burattinaio nerd in quell’ Essere John Malkovich (1999) di Spike Jonze, che ragionava con ben altri affondi e svirgolava con sublimi follie sull’idolatria che sconfina nell’identificazione e poi nel possesso dell’identità famosa, tanto da arrivare alla mutazione di genere sessuale e anagrafico, e al cambio di status sociale e culturale. Se il film di Green avesse tenuto una dimensione più allegorica e dialogica, invece di virare cosi pesantemente e didascalicamente verso conseguenze e reazioni, sarebbe potuto essere una  variazione pungente sugli status vecchi e nuovi della star in transizione tra esistenziale e spettacolare (distanza ormai abolita dalla modalità reality). L’intrattenimento, anche piuttosto divertente, di fatto c’è, e qualche domanda, sulla sparizione dei corpi dei seguaci, inquieta …ma le aspettative dell’incipit non vengono ripagate fino in fondo e non ci resta che ricominciare a pogare ai margine del palco del prossimo idolo, coscienti che la venerazione è un sentimento che non è più di questa terra.

In sala dal 27 marzo 2025.


Opus – Venera la tua stella  (Opus) – Regia e sceneggiatura: Mark Anthony Green; fotografia: Tommy Maddox-Upshaw; montaggio: Ernie Gilbert; musica: Nile Rodgers, The-Dream; interpreti: Ayo Edebiri, John Malkovich, Juliette Lewis, Murray Bartlett, Amber Midthunder, Young Mazino, Tatanka Means, Tony Hale; produzione: Makeready, MACRO, A24; origine: USA, 2025; durata: 104 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

 

 

 

 

 

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