La fossa delle Marianne di Eileen Byrne

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Pensiamo a uno dei più celebri e celebrati road movies del cinema europeo, pensiamo a Nel corso del tempo (1976) di Wim Wenders. Dietro la storia, non priva di tratti goliardici, di una casuale amicizia virile che percorre col camper la linea di confine fra le due Germanie, si nasconde in realtà il duplice tentativo di elaborare un lutto: Robert (Hanns Zischler) la fine del matrimonio e il controverso rapporto col padre, Bruno (Rüdiger Vogler) la perdita del padre che non è tornato dalla guerra e – forse – l’oblio di un’infanzia, almeno in parte, felice. Spesso i road movies partono da un impulso escapistico ma in realtà, non importa se in modo consapevole o meno, si rivelano un’opportunità non sempre coronata da successo di elaborare un lutto.

Beh, il film di esordio di Eileen Byrne rientra a pieno titolo in questo paradigma. Tratto dal libro autobiografico, anch’esso, di esordio di Jasmin Schreiber (1988), il film racconta dell’incontro casuale fra due, diversissimi, personaggi che, guarda caso, s’incontrano in un cimitero: Helmut (Edgar Selge) ha perso la moglie, e – cosa ancor più grave – molti anni prima per annegamento il figlio e, adesso, vuole scavare nella fossa fino a trovare l’urna con le ceneri della moglie Helga; Paula (Luna Weidler) ha perso il fratellino Tim, anch’egli morto annegato (a quanto sembra nel mare di Trieste). I due scappano con il camper di Helmut alla volta dell’Italia: lui deve andare in Alto Adige, lei appunto a  Trieste. Come si conviene a un road movie casuale, ovvero dove all’inizio i personaggi non si conoscono affatto (anche qui si veda Wenders), si assiste a tutta una prima fase segnata da diffidenza, una diffidenza in primo luogo generazionale (basti dire che fra i due attori che interpretano i personaggi ci sono niente meno che 51 anni di differenza!). Ma poi, anche grazie a una serie di lente, lentissime rivelazioni, la diffidenza lascia il posto alla solidarietà, all’affetto malinconico con cui si concluderà il film, e che non riveleremo, almeno in parte. Pur basato, come si diceva, su un impianto largamente autobiografico (Schreiber ha studiato, come la protagonista, biologia, è ossessionata, ai più diversi livelli, dal tema della morte), il film presenta un gradiente di casualità un po’ troppo marcato. Possibile che due personaggi si incontrino al cimitero e scoprano di aver subito lo stesso identico, tragico e inatteso, lutto, ovvero due ragazzini morti annegati? Per carità, tutto è possibile, ma si ha come la sensazione che per sviluppare la vicinanza fra i due personaggi si sarebbe potuto anche differenziare un po’.

Mi pare che, sostanzialmente, siano quattro gli aspetti più interessanti di questo film breve, intenso, a tratti commovente, seppur qua e là leggermente ripetitivo e un pochino televisivo: 1) l’uso di un importante Leitmotiv simbolico e visivo, ovvero l’immagine subacquea di Paola imprigionata nelle profondità dell’acqua (da qui il titolo) che, fino alla liberazione finale, non riesce a risalire, correlativo oggettivo della sua incapacità di liberarsi del senso di colpa per la morte del fratellino, un senso di colpa che è di fatto una forma grave di depressione (la stessa da cui è stata affetta l’autrice del romanzo che ha avuto il coraggio, in più occasioni, di parlarne pubblicamente); del resto, lo stesso attore Edgar Selge (noto, anche in Italia, per un tardivo ed elogiatissimo esordio nel campo dell’autofiction  a 73 anni dal titolo Finalmente ci hai trovati) è attivo all’interno di un’associazione che si occupa di malattie di origine psichiatrica; 2) la capacità della regista di contemperare momenti altamente tragici a momenti di inattesa leggerezza, non arriverei a definire questo film una tragicommedia, ma certamente la pesantezza del tema viene qua e là stemperata da qualche sorriso, da brevi sequenze anche  dolcemente paradossali (furti, il ruolo di una gallina “salvata” da Paula etc.); 3) lo spazio riservato alla natura austriaca ma soprattutto sudtirolese (il film è una coproduzione fra Austria, Italia e Lussemburgo), in chiara funzione di contrappunto verrebbe da dire metafisico, opportunamente sottolineata dal ricorrente uso di droni: la perennità di una natura sublime che, in qualche misura, attenua e relativizza la transitorietà degli esseri umani, e infine 4) le modalità tutto sommato originali di elaborazione del lutto da parte della giovane Paula: la morte del fratello (un fantasma cristallizzato nel tempo, continuamente presente nel film in forma di saggio e maturo consulente della sorella) viene elaborata non già attraverso un improvviso slancio verso la vita, ma, di nuovo, attraverso la morte, una morte stavolta raccontata e vissuta con quel tanto di naturalezza che un evento comunque straziante può concedere.

Ho avuto la – in teoria piacevole – ventura di vedere questo film in versione originale con sottotitoli italiani, mi sia consentito di dire che la Trent Film, la  – per altri versi lodevole – casa di distribuzione ha fatto, stavolta, un lavoro davvero pessimo, a partire dal fatto che i due personaggi per tutto il corso del film si danno del lei, mentre in italiano si danno inspiegabilmente del tu, al punto che quando verso la fine Helmut propone alla ragazza il tu, i sottotitoli si arrampicano letteralmente sugli specchi, e per finire con una quantità assurda di imprecisioni nei confronti di una lista dialoghi, tutt’altro che complessa, che all’occorrenza sarebbe possibile elencare in dettaglio.

In sala dal 24 aprile 2025.


La fossa delle Marianne (Marianengraben) – Regia, sceneggiatura: Eileen Byrne; soggetto: dal romanzo omonimo di Jasmin Schreiber; fotografia: Petra Korner; montaggio: Barbara Seidler; interpreti: Edgar Selge (Helmut), Luna Weidler (Paula); produzione: Samsa Film, Albolina Film, Film AG; origine: Austria/Italia/ Lussemburgo, 2024; durata: 87 minuti; distribuzione: Trent Film.

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