“Il Cinema Ritrovato” XXXIXª Edizione (Bologna, 21 giugno – 29 giugno 2025): Romance sentimentale di Sergej Ėjzenštejn, Grigorij Aleksandrov e Moj syn di Evgenij Červjakov

Romance sentimentale è un cortometraggio che Ėjzenštejn e Aleksandrov girano, collaborando insieme, nel 1930 a Parigi, in occasione del loro viaggio in Europa al fine di confrontarsi con le tecniche del film sonoro. A oggi, questa pellicola rappresenta una delle primissime opere pensate ed elaborate in chiave audiovisiva dal maestro del cinema sovietico, che da lì in avanti svilupperà la sua “lezione di cinema” seguendo e sperimentando le possibili corrispondenze relative a quella che lo storico Jean Mitry ha definito, com’è noto, la “costruzione audiovisiva”.

Il film fu commissionato dall’imprenditore Léonard Rosenthal, marito della cantante Mara Griy (unica interprete e protagonista) che qui esegue una lugubre ballata russa accompagnandosi al pianoforte con un levriero avvolto in una pelliccia d’orso. All’inizio, assistiamo a bellissime sequenze di paesaggi autunnali, davvero una successione di impressioni visive che bene s’intrecciano con i toni musicali di una partitura scritta che s’armonizza con le doti della cantante. Infatti il sonoro di Romance sentimentale è delineato direttamente sulla traccia ottica del film e rappresenta uno tra i primi esempi di utilizzo di questa tecnica. Non si trattava di una dichiarazione cinematografica materialista, bensì di un esperimento verso un linguaggio cinematografico integrato. Le immagini tendono anche a rimandare, seguendo una dimensione allegorica, all’intimo rapporto possibile che tiene insieme arte e morte.

È invece del 1928 Mio figlio (Moj syn), firmato da Evgenij Červjakov. Questa pellicola è la seconda opera (recentemente ritrovata in una cineteca argentina) del regista russo e ci offre davvero l’idea del perché Červjakov fosse considerato un regista molto importante negli anni ’20. Rivela anche le sfide-chiave che hanno plasmato l’evoluzione del cosiddetto “cinema psicologico” nella Russia sovietica. La scelta di mettere in scena la dimensione psicologica dei personaggi è evidente come anche lo è l’intenzione di essere alquanto diretti rispetto alla rappresentazione della sofferenza umana.

Andrej (Gennadij Mičurin) e Olga (Anna Sten) sono una giovane coppia sposata, subito introdotta da due grandi primi piani, intervallati da didascalie: “La moglie” e “Il marito”. Si trovano in ospedale, infatti Olga ha appena partorito un maschio (che rimane fuori campo). Poi escono dall’ospedale, portando con sé il bambino avvolto in una coperta. Si fermano ai piedi di una scala e il volto di Olga trona in primo piano. Il tempo di pronunciare poche parole dal sapore fatale (mostrate in una didascalia): “Perdonami” (stacco su un primo piano del suo volto), “Il bambino non è tuo figlio”. Il resto del film segue la reazione emotiva di Andrej a questa notizia e il suo tentativo di trovare un modo per esserci in tale situazione. Si vengono così descrivendo i suoi sottili cambiamenti emotivi, esaminando la natura della paternità e dell’amore genitoriale. Lo storico Peter Bagrov ha definito Mio figlio un lavoro da “cinema esistenziale”, rivelando nulla più (o meno) delle emozioni umane stesse. Si può anche aggiungere che il contesto in cui si svolge la vicenda è quasi assente. È come se i personaggi si trovino come espulsi da loro ambiente materiale. Vengono rivelati nel loro essere “nudi” in un certo senso. Il film sembra collocarsi volutamente e deliberatamente al di fuori delle traiettorie consolidate del cinema di stampo materialista sovietico. È composto in gran parte da primi piani estesi che, come hanno notato critici e studiosi (anche a noi contemporanei), durano per un tempo insolitamente lungo. La macchina da presa è in gran parte fissa. Ci sono poche inquadrature in soggettiva e la fotografia è minima e priva di atmosfera identificabile. Anche la scenografia è essenziale (lo scenografo Meinkin ha infatti allestito l’appartamento di famiglia quasi vuoto, fatta eccezione per una culla e uno sgabello). E tutto il film nel suo complesso presenta pochi oggetti fisici. Privato di distrazioni, osserva Bagrov, “lo spettatore non può fare altro che guardare queste inquadrature ‘inutili’”.

Anna Sten

Si potrebbe dire che, nonostante tutte queste differenze, tuttavia Mio figlio condivide con altre opere sovietiche del suo tempo la convinzione che il cinema potesse essere uno strumento rivelatore. Cerca di fornire un’“epistemologia delle emozioni umane”, di rivolgere l’occhio oggettivo della macchina da presa sul volto umano. L’espressione e i sentimenti umani ne forniscono il materiale. La pelle appare come una superficie, i suoi pori quasi visibili; una luce soffusa rivela le cavità e le incavature del viso in sfumature di grigio; labbra e occhi funzionano quasi come oggetti materiali sullo schermo. Così lo spettatore è portato a instaurare una relazione affettiva con il volto e le sue emozioni, che va oltre la comprensione “razionale” al fine di in un’empatia del tipo quasi “incarnata”. L’uso del primo piano da parte di Červjakov in questo film, come anche la sua attenzione al volto umano, appare come un rarità nel contesto sovietico. Infatti sembra vi fossero maggiormente forti legami con un contesto europeo più ampio: in particolare con le opere di Delluc ed Epstein, e con gli scritti di Béla Balázs. Com’è noto, nel suo libro teorico L’uomo visibile, Balázs analizza la capacità del cinema di rivelare “il volto” (non solo delle persone, ma anche delle cose). Un primo piano del volto umano era, per Balázs, una delle immagini più potenti del cinema: “Un volto può mostrare simultaneamente le emozioni più diverse […]. Sono le corde del sentimento la cui essenza è in realtà la loro simultaneità. Tale simultaneità non può essere espressa a parole”. Ecco una forza delle immagini che questo film, si potrebbe sostenere “in tempi non sospetti”, rappresenta in modo calzante.

Per concludere, più volte nelle didascalie come nei meandri delle scene si rimanda a un monito: non è la vita a essere complessa e difficile da affrontare, siamo noi essere umani che non abbiamo ancora imparato da lei i modi e le maniere per trovare le soluzioni giuste. Davvero questo film è inzuppato di esistenzialismo, di un laico spirito “umano troppo umano”.


Romance sentimentale – Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Sergej Ėjzenštejn, Grigorij Aleksandrov; fotografia: Ėduard Tissė; musiche: Aleksandr Archangel’skij; scenografia: Lazare Meerson; interpreti: Mara Griy (cantante); produzione: Léonard Rosenthal per “Sequana Films”; origine: URSS/ Francia, 1930; durata: 20 minuti. Edizione restaurata 2025: proiettata a Bologna, nella sala “Mastroianni” del Cinema Lumière, il 26.06.2025.

 Mio figlio (Moj syn)Regia: Evgenij Červjakov; soggetto: dal racconto Delo No. 3576 di Dmitrij Sverčkov; sceneggiatura: Evgenij Červjakov, Nikolaj Dirin, Viktor Turin, Jurij Gromov; fotografia: Svjatoslav Beljaev; scenografia: Semën Mejnkin; interpreti: Anna Sten (Ol’ga Surina), Gennadij Mičurin (Andrej Surin), Pëtr Berëzov (Trofim), Ol’ga Trofimova (una vicina), Elena Volynceva (una vicina), Nadežda Michajlova (una vicina), Ursula Krug (madre del bambino morto), Vladimir Stukačenko (capo della commissione locale), Boris Feodos’ev (comandante dei pompieri); produzione: Sovkino (Leningrado); origine: URSS, 1928; durata: 50 minuti; versione: didascalie russe; audio: muto. Edizione restaurata 2025: proiettata a Bologna, nella sala “Mastroianni” del Cinema Lumière, il 27.06.2025.

 

 

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