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Voto
Il primo impatto, da un punto di vista di risonanza con un immaginario molto familiare e riconoscibile, che provoca la visione de L’oro del Reno, esordio alla regia di lungometraggio di Lorenzo Pullega, è quello di essere un’opera apertamente derivativa. E i riferimenti evocati, in un incrocio più che una sovrapposizione di genealogie e omaggi, appartengono a due cineasti che nel corso del tempo hanno dialogato sempre di più a distanza: il Federico Fellini a cavallo del primo periodo riminese e della trasfigurazione metacinematografica della memoria ( tra I vitelloni e Otto ½ , con l’appendice a colori di Amarcord) e il Paolo Sorrentino che ne riprese lo stesso, corposo afflato autoriale in chiave ora nostalgico-consolatoria (La grande bellezza) ora senilmente estetizzante ( Youth-la giovinezza). Il pretesto è sempre quello di un racconto che riflette, in modo velatamente autobiografico, su se stesso: un non meglio precisato circolo provinciale affida a un regista il progetto di realizzare un documentario che racconti la variegata umanità che si sposta tra le acque e le sponde del fiume Reno, lungo le coste del territorio tosco-emiliano, con l’inizio proprio dalle zone della foce situata in provincia di Pistoia. Si tratta di un viaggio compiuto in soggettiva e raccontato dalla voce di Neri Marcorè, che possiede la giusta inflessione tra lo stralunato stupore e la mite reticenza di chi guarda ai ricordi ibridati, in forma felliniana, tra finzione e realtà. Le suggestioni, anche musicali e teatrali, sono molteplici a partire dall’incipit che provoca subito uno straniamento geografico, temporale e narrativo. Stiamo forse per assistere all’incipit del dramma wagneriano Das Rheingold (L’oro del Reno, che da poi il titolo a tutto il film, svelandone l’approccio di spiazzante contrappasso nei confronti delle aspettative), messo un scena da una compagnia amatoriale di melomani giapponesi? Non esattamente cosi, in quanto il primo cut diegetico, che interrompe e offre una cornice a quella messa in scena, ci introduce già nella dimensione di una rappresentazione. Anzi, più precisamente del fatto che quello che vedremo è il racconto in itinere di un luogo che evoca il passato e che produce memoria, un documento dichiaratamente non realista oppure finalizzato a riportare un dato storico o un affresco socio-antropologico.
Al regista viene detto in maniera esplicita che è stato scelto per una questione anche autobiografica, perché quello è il fiume che può guardare dalla finestra di casa sua. Un aspetto che si evince di fatto dalla posizione mantenuta dallo stesso Pullega verso il fantasmatico e suggestivo microcosmo a tappe che va a filmare con i proprio occhi, spalancati dello stesso stupore del ragazzino che, appunto, spalanca la finestra sul mondo fuori dalla propria cameretta. Si tratta in effetti anche di un limite posto rispetto ai menzionati possibili autori di riferimento, in quanto non vi è la stessa tensione verso una grandiosità visionaria di altri apparati produttivi, ovviamente, e neanche l’affondo esistenziale nella disperazione di un bluff smascherato, di uno spettacolo roboante ridotto a pantomima silenziosa. Le facce “felliniane” riprese spesso come apparizioni di close up ghignanti o soavi, con la stessa percezione di leggero asincrono di un suono emesso o di un monologo doppiato provenienti da un’ovattata sala di montaggio, scorrono suscitando a volte un (intenzionale) distacco, che fa il palio con l’imponderabile mistero di un terra di apparizioni, fuori dal tempo della Storia e dentro i tempi di microstorie, spesso venate di morte e di (dis)incanto. L’educazione sentimentale (termine da intendersi più ampliamente come amore per il potere affabulatorio delle immagini e delle parole), segnata immediatamente dalla consapevolezza che il fiume è apertura e libertà verso il mare, ma può diventare il crudele letto acquatico che restituisce esanimi i corpi caricati dall’attesa di un desiderio, un’aspirazione, un orizzonte. Anche la scelte stilistiche oscillano tra la continuità di una macchina da presa in movimento, che segue lungi i rivoli d’acqua e gli scorci di terra il susseguirsi di eventi non concatenati tra loro e avulsi da un contesto cronologico identificabile se non in un anno preciso (solo l’iniziale spedizione dei melomani giapponesi è ascritta al 1985), in un periodo o in un’epoca, se non quelli “mitici” delle leggende e del cinema, e un bisogno di staticità, di fermarsi. In particolare due momenti esprimono la tentazione di stanziarsi e compiacersi in un’apatia che è sterile, formale rievocazione di ciò che è stato, sempre nel solco di una sovrapposizione tra reale, sognato e immaginato, e cosciente rifiuto di continuare a stare in movimento, ad agire.

La lunga sequenza delle terme riconduce all’ingabbiato, mortifero rituale di una bellezza/giovinezza perduta del cinema di Sorrentino (senza gli stessi estetizzanti affondi, metafore e simbolismi ) e, in controcanto, la comunità di sdraiati al sole, con il loro biondo leader che ricorda il Mr. Ok dei tuffi nel Tevere filmato ne La grande bellezza e approdato alla pace della performance a effetto: due facce di una stessa medaglia in contatto su due speculari visioni della vita, da una parte il sistematico culto di corpi in disarmo che trova nelle pieghe nascoste, nei corridoi buoi e nelle stanze segrete dell’albergo termale il suo sfogo liberatorio (la scena al rallenti delle maschili nude bellezze al bagno); dall’altra la leggerezza delle superfici abbronzate di persone e personaggi felicemente danzanti nelle loro fattezze fisiche non corrispondenti ai modelli di forma e di efficienza della “società attiva”. Se talvolta si può rimanere perplessi nel voler cercare una necessità o, anche, semplicemente un senso al perché di questa ricerca delle fonti e delle radici di una fantasia anche molto privata ( quando il mondo fuori, adesso, da qualsiasi prospettiva lo si osservi, sta letteralmente bruciato), l’operazione in regressione/rewind di Pullega presenta un’ immagine che smonta qualsiasi illusione o consolazione: quella della giovane sposa, in fuga sopra un letto trasformato in barca dopo l’alluvione del Reno, alla ricerca del proprio sposo, contro l’evidenza di una direzione smarrita. Un corpo a corpo con la brutalità del fenomeno naturale risolto sul piano sconsolato dell’immaginazione, di una volontà talmente forte di vedere ciò che si vuole vedere da farlo materializzare davanti ai nostri occhi.
Ecco, il fastidio e il fascino di questo film risiedono proprio nel simultaneo conflitto tra il riconoscere la forma di quello che si cerca e il sentirne la sostanziale evanescenza, l’aleatoria suggestione.
In sala dal 3 luglio 2025.
L’oro del Reno – Regia: Lorenzo Pullega; sceneggiatura: Federico Montevecchi, Lorenzo Pullega, Roberto Romagnoli; fotografia: Alessandro Veridiani; montaggio: Ilaria Cimmino; musiche: Marco Pedrazzi; interpreti: Neri Marcorè, Rebecca Antonacci, Eva Robin’s, Giorgio Comaschi, Lucianna De Falco, Marco Mario De Notaris, Giuseppe Gandini; produzione: Mompracem, RAI Cinema, Rheingold Film; origine: Italia, 2025; durata: 90’; distribuzione: Europictures.
