Raccontare la realtà in presa diretta è qualcosa di estremamente rischioso e pericoloso, in quanto è difficile trovare l’equilibrio tra la lucidità e il rigore, e l’essere travolti e schiacciati dal portato emotivo e fumante di un carico di informazioni, eventi e conseguenze non riducibili o esauribili in nessuna forma di rappresentazione; al tempo stesso c’è però una necessità etica prima che estetica di far vedere e, laddove non è tollerabile arrivare con le immagini, far ascoltare la testimonianza in carne e ossa, qui adesso in questo tempo, dei superstiti. Qui vit encore, diretto dal regista svizzero Nicolas Wadimoff, è un documentario che prende di petto frontalmente lo stato delle cose che in questo momento sta mettendo a ferro e fuoco un popolo e la sua terra dal punto di vista concreto, materiale, effettivo, e sta logorando, in un senso e nell’altro, le coscienze degli individui, delle comunità, dei governi di tutto il resto del mondo: il genocidio del popolo palestinese messo in atto dal governo israeliano come spropositata e iniqua risposta all’indomani del 7 ottobre 2023, quando l’organizzazione terroristica di Hamas mise in atto un sanguinoso e barbaro attentato massacrando civili e militari, e facendo ostaggi tutt’oggi ancora prigionieri. Il film di Wadimoff non si propone però di fare alcuna ricostruzione storica di una situazione che affonda le sua radici ben prima di quella data spartiacque (quantomeno in un percepito e in un’attenzione mediatica che si interessa per accadimenti sensazionali, più che per documentare con costanza e precisone ) e la sua dimensione dichiarata è quella di restare sul piano delle storie dei singoli come riflesso dei tutti: a parlare rivolgendosi frontalmente in camera sono nove palestinesi, uomini e donne, sopravvissuti all’accanimento di bombardamenti diffuso a tappetto su case, scuole, ospedali, perfino centri di approvvigionamento di viveri e di acqua, e qualsiasi altro sito civile, i quali parlano in modo diretto, e senza neanche la necessità di dare informazioni più di tanto contestualizzanti, della concatenazione di fatti, emozioni e nomi che li hanno portati ad essere separati dalla loro abitazioni (distrutte) e dai loro parenti (uccisi).

Quello che però non fanno le parole viene supplito dall’idea iniziale di messa in scena, che vorrebbe evidentemente offrire una lettura astratta e simbolica di una materia così contingente e prossima. I testimoni si ritrovano in una sorta di scarno spazio teatrale, un palcoscenico sul quale disegnano con un gesso le sagome delle loro case distrutte e la loro posizione nello spazio, che circoscrive il territorio della Striscia di Gaza fino alla città di Rafah. E già questa figurazione rende il senso di costrizione e di isolamento: quadrati che rappresentano le zone nelle quali l’esercito israeliano controlla, impone, governa gli spostamenti e le espropriazioni degli edifici, costringendo i palestinesi ad essere profughi e rifugiati all’interno del paese dove hanno sempre vissuto. Questo senso di spaesamento e di sradicamento è reso con efficacia dalla simulazione portata in scena dai corpi sperduti e ancora scioccati, in quanto le esperienze vi raccontate da ognuno di loro sono in interminabile corso, e il non sapere da dove venire e dove andare, dove sentire la sicurezza di poter fermarsi , pur esprimendo un fortissimo senso di appartenenza a quei luoghi, racchiude in sé il senso di una speculare, rispetto alla storia del popolo ebraico, e peculiare, rispetto al pressante e crescente sentimento anti arabo della contemporaneità, diaspora. Tra le tante suggestioni a cui può rimandare un palcoscenico aperto con delle scenografie disegnate per terra, una delle più forti è quella contenuta in Dogville, opera di tutt’altro tono, impostazione e prospettive diretta da un cineasta scorretto e antagonista come Lars von Trier. Eppure una risonanza sulla funzione di quel procedimento straniante utilizzato da entrambi questi film è identificabile: ribaltando la visuale su un microcosmo umano non manifestazione della grazia divina ma dell’aggressività animalesca (Godville/Dogville), von Trier condannava la pantomima della civiltà come mascherata dalle mura della cooperazione, della solidarietà, dell’ accoglienza; il far cadere non solo la quarta parete, ma tutte le pareti, significava far cadere proprio le fondamenta/forme della società e tirarne fuori la propensione di brutalità e sfruttamento. La nudità abitativa nella quale sono scaraventati i cittadini palestinesi, oltre ad esporli come bersagli fisici dello sterminio in atto, diventa così l’incarnazione deflagrata dello smisurato abominio provocato, sempre più sistematicamente e organicamente, dal governo israeliano e dai suoi emissari militari. Non c’è modalità peggiore di mortificazione e umiliazione, che quella di vedere un soggetto privato dei suoi legami affettivi e della casa declassata dalla stato di nido familiare a quello di rifugio estraniato e confinato, e poi di transitorio centro di passaggio per l’espulsione.

Quella semplice e potente intuizione visiva, che incornicia inizio e conclusione, crea paradossalmente un corto circuito con il resto del documentario, con il nucleo centrale, caldo, emozionante. Le nove testimonianze che si succedono hanno infatti un valoro inestimabile come documentazione diretta di quello che sta accadendo, e un più che legittimo impeto di sfogo e commozione (peraltro sempre trattenuta e misurata). Eppure ci si chiede se a quel punto quella cornice cosi straniante e simbolica per paradosso non impoverisca l’impatto delle parole, al contrario non filtrate, recitate o rappresentate. Arriva la volontà, talvolta con un sentore un po’ stonato, di mettere insieme la presa diretta e la trasfigurazione, la carica emotiva e la riflessione critica. A un certo punto subentra un’ansia di dire e di far sapere, al di sopra e al di là del come, che fa emergere senza filtri, cosa lodevole visto il rischio di manipolazione e retorica in particolare delle “narrazioni”, il dilemma di cui dicevamo sopra , quello tra etica ed estetica. E con un risultato che a tratti rasenta l’intenzione contraria a quella dell’autore, ovvero disperdere il flusso di racconti oppure appellarli all’efficacia espressiva di ciascun singolo soggetto: da questo punto di vista le donne appaiono meno propense a divagazioni e commenti, con una secchezza e una capacità di andare dritte al punto che colpisce veramente al cuore. Poi c’è un altro racconto, quella di una ragazza che parla in uno stato emotivo di agitazione e spavento, come se fosse nella trance adrenalinica di una di quelle notti post 7 ottobre. Al di là della ripresa nel rispetto del suo modo di esprimersi e di rivivere un terrore cosi recente, è come se si senta il bisogno che qualcuno a un certo punto le dica di respirare, le tenga una mano, la tranquillizzi ricordandole che ora si trova in un altro spazio e in un altro tempo.
Un filtro che può dare un peso differente a ogni ricordo. E che è invece presente in quella sorella che prima rammenta l’ultima cosa che ha fatto con il suo giovane fratello e poi ne mostra il video:
Il suo nome è Omar…il mio nome è Omar.
Qui vit encore – Regia e sceneggiatura: Nicolas Wadimoff; fotografia: Leandro Monti, Camille Cottagnoud; montaggio: Jean Reusser; musica: Dom La Nena; interpreti: Jawdat Khoudary, Mahmoud Jouda, Adel Altaweel ,Haneen Harara, Malak Khadra, Hana Eleiwa, Feras Elshrafi, Eman Shannan, Ghada Alabadla; produzione: Akka Films, Easy Riders Films, Philistine Films, RTS Radio Television Suisse, SRG SSR; origine: Svizzera, 2025; durata: 113 minuti.
