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Raccontare in questo momento la radice storica, culturale, antropologica di quello che sta succedendo oggi a Gaza, dell’acclarato genocidio che il governo israeliano sta mettendo in atto contro il popolo palestinese, con le immagini di esseri umani di qualsiasi età, estrazione sociale e identità sessuale, accomunati dal fatto di essere arabi, devastati dai bombardamenti a tappeto, è un rischio che implica una riflessione precisa tra etica ed estetica. In Tutto quello che resta di te la regista Cherien Dabis sceglie la strada del racconto classico, ovvero seguire l’evoluzione e le conseguenze dirette e indirette dell’occupazione israeliana a partire dal 1948 e attraverso tre generazioni di uomini: un nonno, un padre e un figlio che subiscono, in forme differenti , le violenze e i soprusi degli invasori. Si comincia dai bombardamenti su Jaffa a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, con i primi sfollamenti da parte dei soldati nei confronti dei residenti, privati non solo dello spazio pubblico, ma anche di quello privato delle case e dei terreni. Inviati moglie e figli in un accampamento in costruzione in Cisgiordania (ma loro, borghesi, viaggeranno in macchi e alloggeranno nella casa di uno zio), Sharif rimane con il comitato cittadino a presidiare la propria terra, in particolare l’aranceto cosi simbolicamente legato all’altezza della parola poetica araba che insegna al figlio Salim. Qui avviene il primo sfregio, quando una banda di militari lo aggredisce e lo arresta per aver provato ad obiettare contro quella usurpazione, arrestandolo e condannandolo ai lavori forzati ( dai quali uscirà con un malformazione cardiaca come segno concreto di un trauma da portarsi dietro per il resto della vita); trent’anni dopo Salim, che ha accettato passivamente quella situazione oppressiva pur di far sopravvivere se stesso e la propria famiglia, non può risparmiare al figlioletto Noor la visione di una mortificante ferocia. Fermati da una squadra durante uno dei quei copri fuoco annunciati e revocati a piacimento per una semplice affermazione di potere e controllo, l’uomo verrà pesantemente umiliato di fronte al bambino senza porre la minima resistenza, alimentando un disprezzo e una sfiducia in Noor (che, al contrario, rivendica già una dignità e una rabbia più in sintonia con il sentimento amareggiato del nonno).

Questa struttura a spirale porta alla tragedia del decennio successivo, quando il ragazzo, ormai giovane studente, viene colpito da un proiettile tra i tanti sparati sulla folla manifestante a sostegno della prima Intifada (siamo nel 1988). Un climax drammatico, con tanto di caduta in coma farmacologico di Noor e conseguente dilemma cruciale dei genitori (la madre è interpretata dalla stessa Dabis), che è anche il centro intorno a cui ruota l’articolata struttura del romanzo storico/familiare. Tutto infatti è riportato come in un lungo flashback che trascende il ricordo personale e si pone come una sorta di memoria orale più estesa e, dall’anziana Hanah, la moglie di Salim e la madre di Noor, che si rivolge direttamente non solo agli spettatori, ma ad un altro personaggio che si scoprirà alla fine. Trattandosi, come si sarà capito, di un film che punta molto sulla storia e sul succedersi degli accadimenti, non è il caso di rivelare l’identità dell’interlocutore di Hanah. Anzi, il credere che si possa trattare di qualcuno a cui poter e dover tramandare la testimonianza di ciò che avvenuto e continua ad avvenire, aumenta l’intensità del confronto , nel quale si stabilisce oltretutto un’ ecumenica forma di scambio e di riconoscimento tra ebrei e palestinesi.
Da un punto di vista del linguaggio, Cherien Dabis utilizza una forma sostanzialmente tradizionale, senza digressioni o divagazioni di sorta, dove ogni elemento è funzionale a portare avanti la narrazione. Ma ciò che è sommamente apprezzabile è, nonostante il soggetto così denso e potente, la sobrietà con cui mette in scena le situazioni anche più pesanti e terribili. Emblematica è la sequenza in cui Salim è costretto con un fucile puntato alla testa a pronunciare ad alta voce frasi insultanti verso se stesso e la moglie davanti a uno scioccato Noor. A prescindere dal modo in cui sono rappresentati i soldati, veramente degli sbavanti fanatici e sadici (una concessione allo schematismo, evidentemente) il tono è rigoroso e teso e si capiscono le ragioni del comportamento di Salim, che preferisce umiliarsi davanti al figlio piuttosto che farlo assistere alla propria esecuzione, e al tempo stesso i sentimenti di Noor, il quale si vede crollare davanti la forza e l’affidabilità della figura paterna. Una scena precisa che restituisce con altrettanta precisione il senso di frustrazione e di impotenza di un popolo intero, dilaniato tra il dover lottare per la propria vita o dover morire per la propria dignità, tra lasciare o rimanere in campo. Quello che convince meno, e con una sceneggiatura cosi lineare salta più palesemente davanti agli occhi, è lo squilibrio tra le varie parti e l’assenza di un approfondimento ugualmente ficcante di ogni personaggio, nonostante non manchi il tempo lungo le dilatate quasi due ore e mezzo di durata. Prendiamo il personaggio di Noor: forse la parte in cui cresce e diviene un simpatizzante dell’Intifada avrebbe dovuto essere sviluppata di più, in modo da rendere più corposo quel conflitto germinato e, supponiamo, cresciuto nel corso degli anni con il padre cosi sconfitto e accomodante (mentre è ben definito il rapporto tra Salim e il genitore ormai anziano del quale non vuole vedere e sentire il dolore di quell’originaria ferita, l’allontanamento dalla propria casa/terra). 
A tratti sembra che la regista si sia ricordata in corsa di riprendere i fili delle varie vicende in successione, con una conclusione eccessivamente lunga e annunciata, alla ricerca di un’immagine da far tornare, fino a quella più scontata e cartolinesca di una coppia anziana truccata e imparruccata. Certo, nel confronto con le quotidiane immagini della realtà provenienti da qualsiasi supporto audiovisivo e con l’imminente uscita di La voce di Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya (una marcatura netta di come le voci del racconto di questa tragedia siano prevalentemente femminili), che di quella realtà porta il carico e il rischio del rapporto verità/finzione, Tutto quello che resta di te appare superato e fuori dal tempo, ancorato agli stilemi e alle cadenze della storia come riflesso della Storia, della questione personale dentro la quale si rispecchia quella sociale e comunitaria. Si tratta probabilmente di guardare in una maniera differente, cercando un coinvolgimento più mediato, pacato, lineare, con una distanza di metodo che non è pero mancanza di posizionamento. Anche se oggi è necessario essere scaraventati con più determinazione nel pozzo senza fondo di quello che il colonello Kurtz di Apocalypse Now avrebbe definito L’orrore…L’orrore.
In sala dal 18 settembre 2025.
Tutto quello che resta di te (Ally baqi mink) – Regia e sceneggiatura: Cherien Dabis; fotografia: Christopher Aoun; montaggio: Tina Baz; musica: Amin Bouhafa; interpreti: Saleh Bakri, Mohammad Bakri, Cherien Dabis, Adam Bakri, Maria Zreik, Ramzi Maqdisi, Dominik Maringer; produzione: Janine Teerling, Mathias Schwerbrock, Nadia Saah per Pallas Film, arte, AMP Filmworks, ZDF; origine: Cipro/ Germania/ Grecia/ Giordania, 2024; durata: 145 minuti; distribuzione: Officine Ubu.
