Seguendo uno degli aspetti della comunicazione umana che più appassionano Nicolas Philibert, ovvero osservare il modo nel quale si svolge il dialogo all’interno di un collettivo (che preferisce al termine comunità in quanto più aperto), come ha dichiarato a Carlo Chatrian durante la masterclass tenuta al PerSo, le sue ultime due opere, sempre presentate in questa edizione del Perugia Social Film Festival, pongono degli interrogativi cruciali per il senso del fare cinema documentario: sia Averroes et Rosa Parks che La macchina da scrivere e altri disastri esplorano questa dimensione dialogica e relazionale nel minato campo della malattia psichica, che lo stesso Philibert chiama follia, spostando l’attenzione dalla categoria diagnostica e normativa a quella irrazionale e creativa (rapporto reiterato anche nella dicotomia istituzione manicomiale/spazio di libertà); riprendendo situazioni già raccontate nel suo documentario del 2023 Sull’Adamant-dove l’impossibile diventa possibile, Orso d’orso anti mainstream al Festival di Berlino, in Averroes et Rosa Parks il cineasta francese passa dal centro diurno galleggiante sulla Senna parigina ai due reparti dell’ospedale psichiatrico Esquivol, i cui nomi compongo il titolo del film, focalizzandosi stavolta sulle conversazioni tra pazienti e psichiatri, con l’obiettivo dei secondi di proporre ai primi una graduale modalità di dimissione dall’istituto e una possibilità di coabitazione in un appartamento. E per riprendere in ogni sfumatura, suono, silenzio e parola le fittissime, paradossali, talvolta strazianti e senza fiato, altre volte tenere e divertenti, sedute psicoterapeutiche sceglie di utilizzare due videocamere che riprendono in contemporanea i continui campi e controcampi in un ritmo ora fluido ora sincopato, organico alla progressione drammatica del confronto/incontro.

Questo dispiegarsi integrale e insieme frammentato (in particolare il controcampo dà l’idea di uno iato temporale tra domanda e risposta, diverso comunque dalla simultaneità di azione e reazione del piano sequenza) tra le digressioni non sempre consequenziali, comprensibili e verbali degli internati e il punto fermo che i medici tentano di mantenere rispetto alle intenzioni e funzioni del progetto, esprime con forza l’impatto della vita fuori, non da tutti percepita come promessa di reinserimento sociale, rispetto a quella che ogni paziente si è costruito dentro. La parola diventa dunque lo strumento attraverso il quale costruire la zona intermediale della propria psicosi, tra la minaccia insondabile della realtà e il totale abbondono al delirio. I volti, gli sguardi e i movimenti delle mani, delle braccia e del resto del corpo, sia degli intervistatori che degli intervistati, acquistano cosi un valore connotativo del contesto e di chi lo abita e lo anima, rilevante e rivelatorio alla stregua di ciò che viene detto. Non c’è nessuna reverenza o reticenza in questo registrare le cose cosi come sono, tanto che molte delle persone intervistare, fin dal primo giovane uomo che ascolta sarcasticamente le opportunità sciorinate ottimisticamente dai due psichiatri a proposito di andare a vivere in una stanza con persone sconosciute, ridimensionano la mission dei loro curanti, e ne mettono in evidenza con ritmo serrato e quasi brillante le contraddizioni, gli svantaggi, i pericoli.
Ma c’è anche chi non riesce ad uscire dalla gabbia del disagio nel quale rimane sospeso o sospesa; uomini e donne interrotti e interrotte nella cadenza dialettica e nel riconoscimento dell’altro a cui dovrebbe portare il linguaggio come pratica e non solo come autonarrazione del sé. Una tragedia che Philibert individua in particolare nella figura di un’anziana donna intrappolata fino all’autolesionismo nell’iperbole senza freno della paranoia. E qui si pone un’altra questione a cui l’autore ha cercato di dare un proprio punto di vista durante la Masterclass: ricordando un proprio precedente lavoro, La Moindre des choses (1997), realizzato all’interno di un altro istituto psichiatrico, gli ospiti del quale erano impegnati nella messa in scena di uno spettacolo teatrale, rievoca infatti il suo impatto con la malattia mentale, l’atteggiamento iniziale di paura e di timore, la necessità di stabilire un contatto, di costruire un rapporto di fiducia, ottenere un consenso da loro a farsi filmare ridotto non solo al segno cartaceo di una liberatoria. Le due sequenze, una delle quali in chiusura, della menzionata paziente con deliri paranoici di Averroes et Rosa Parks, girato quasi vent’anni dopo, sollevano delle domande che Philibert sembra integrare in uno sguardo che va a posarsi sopra quell’essere umano ferito e abusato, in cerca di una soluzione a portata di mano che gli viene negata , senza che le sia, e ci sia, spiegato il motivo ( l’abbraccio che chiede allo psichiatra che l’ascolta rispetto a quello di cui lei ha bisogno per stare meglio, anche se poi l’uomo decide di non superare la linea di una vicinanza spinta fino al confine del vis a vis). Fino a quanto è legittimo far durare il timing della ripresa di una persona che si trova in un tale stato di sofferenza e di prostrazione psicofisica? E fino a che punto è consapevolmente percepito il significato dell’espressione “consenso informato” da chi sta vivendo un rapporto alterato e disconnesso con la realtà?. Philibert afferma di non avere risposte precostituite da applicare, e con cui contenere e indirizzare, ciò che accade davanti ai suoi e ai nostri occhi. Certo è che, pur rientrando nella modalità che, tra la tassonomia del linguaggio documentaristico, viene identificata come “d’osservazione”, ovvero con l’intervento non diretto e non esplicitato del regista sui fatti a cui sta insistendo, il rapporto tra distanziamento e avvicinamento della posizione della macchina da presa ha un ruolo ancora più cruciale nel penetrare determinati spazi protetti da una parte ed esposti dall’altra, invisibili e al tempo stesso trasparenti.

Una contraddizione che non si risolve in una (im)possibile quadratura del cerchio, ma fa trasbordare la sostanziale ambiguità del reale in una costante, permanente e necessaria riflessione non sul cosa ma sul come vedere. Quando Philibert afferma “ Io vado verso quello che socialmente ci rispinge e ci disturba”, mette già insieme un doppio movimento di respingimento e di attrazione che probabilmente chiariscono anche il posizionamento mediano del suo sguardo, con un palese sbilanciamento verso l’entrare e lo stare vicino, in qualsiasi condizione. Nella visione dei tre film presentati al PerSo, questa articolazione del discorso audiovisivo è maggiormente comprensibile, specie nel restituirla come messa in abisso della fruizione spettatoriale. Nénette (2010), proiettato prima del dittico sulla psichiatria, si confronta con il ravvicinatissimo close up di uno scimpanzé femmina, confinata nella gabbia a vetrate di uno zoo, mostrata alla curiosità dei visitatori e alle disquisizioni scientifiche degli etologi, senza controcampo, proprio per che, in quanto assente la dimensione del linguaggio, non può esserci relazione. Se lo stato di cattività ne salvaguarda l’esistenza della specie dalle devastazioni capitaliste e coloniali degli uomini contro l’ambiente naturale da cui proviene, altresì fa riflettere sul plexiglass, sull’obiettivo della videocamera, sulla nostra retina oculare il sentimento di solitudine, noia, tristezza, nostalgia di Nénette, la rassegnazione intima di un essere vivente privato e condizionato ( e anche un malato psichiatrico, di fatto, porta sulle proprie spalle una stigmatizzazione cosi pesante). A parte l’evidente meccanismo proiettivo del voler riguardare l’incarnazione sopravvissuta della nostra ascendenza animale (“Nénette siamo noi” , dice Philibert), c’è un certo turbamento provato nel rendersi conto dei processi di oggettivazione e musealizzazione messi in atto sul corpo di un animale ancora vivo e vibrante.

Un respiro più aperto ed espanso è presente invece in La macchina da scrivere e altri disastri, dove torniamo ai soggetti umani di Sull’Adamant colti però in uno spazio che, per quanto controllato a vista, è più personale e intimo dell’ufficio o della sala d’attesa di un ospedale psichiatrico. Il regista entra stavolta dentro le case delle persone che oramai lo conoscono e si rivolgono a lui (che resta comunque dietro la mdp), nell’espressione più compiuta di quella fiducia necessaria a stabilire una via d’accesso e la continuità della relazione. E gli argomenti attraverso cui conoscere le vite degli altri partono dal pretesto concreto di riparare e sistemare una serie di oggetti (macchine da scrivere, lettori cd, pianole elettriche, una sconfinata collezione di vinili) custodi nella loro materialità fallace e riproduttori in quanto dispositivi meccanici di un memoria di passioni, creatività, immaginario. L’altra versione di un mondo, a cui concedere magari il privilegio di un inquadratura in più, senza dimenticare la eco del suono ansimante e l’impressione degli occhi allucinati di quella donna che può percepire solo il pericolo e la paura.
