West Side Story di Steven Spielberg

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La prima banalissima domanda che ci si pone, subito, difronte all’ultima opera di Steven Spielberg è perché voler rifare un autentico capolavoro, un film che nella storia del cinema, insieme a Singing in the Rain (1952), ha rappresentato il top assoluto nel genere del musical. Come si sa, non sono mancati in passato, diciamo così, “azzardi” simili, per esempio ricordiamo quando un regista non certo dozzinale come Gus Van Sant ha pantograto Psycho (1998), remake shot-for-shot e a colori della celeberrima opera (1960) di Alfred Hitchcock – una operazione che all’epoca fece molto discutere e spaccò a metà la cinefilia tra favorevoli e contrari.   

Ma forse è una domanda del tutto inutile, superflua dato che il grande regista di Cincinnati, ormai arrivato al culmine della sua carriera, voleva togliersi da lungo tempo questo desiderio. Già nel marzo 2014 aveva cominciato a parlare concretamente del progetto di un remake, tanto che la 20th Century Fox aveva acquistato i diritti cinematografici del famoso musical del 1957. Poi è passata dell’acqua sotto i ponti, cinque anni, e nel 2019 è stato girata questa nuova versione di West Side Story, tenuta poi in fresco, causa Covid, sino ad oggi, anche se poi il Covid non sembra per nulla domato.

Dedicando il film al padre, come si legge nei titoli di coda, evidentemente Steven Spielberg, che resta un gigante del cinema contemporaneo anche se qualcuno gli consiglia di andare in pensione, si è permesso un piacere consentito a pochissimi, nel sempre più difficile business del cinema contemporaneo. Onore alle armi, come si dice nel linguaggio militare.

Ma venendo al film, per quei pochi smemorati che leggono le nostre pagine, ricordiamo che questa è la terza avventura nel mondo dello spettacolo del classico musical, caratterizzato dalle musiche di Leonard Bernstein, il libretto di Arthur Laurents e le parole di Stephen Sondheim, che a quattro anni dalla sua nascita, nel 1961, dette vita al celebre capolavoro cinematografico di Robert Wise e Jerome Robbins, tra l’altro, per quanto vale (ma qui vale veramente) vincitore di ben 10 Oscar. In soldoni, il film attualizzava la storia, immortale, di Romeo e Giulietta di William Shakespeare, ambientandola nella New York dei tardi anni Cinquanta e connotandola in senso sociale, e cioè per narrare il profondo e insanabile razzismo della società americana.

Al posto delle due famiglie veronesi dei Capuleti e dei Montecchi, troviamo due gang di quartiere nel West Side di New York, insanabilmente in lotta tra loro, gli americani bianchi di seconda generazione e di origine polacca (ma non solo), gli Jets, con a capo Riff (Mike Faist) e, di contro, i giovani immigrati portoricani, gli Sharks, capeggiati da Bernardo (David Alvarez). Come da copione, lottano per il controllo del territorio e si scontrano ripetutamente per le strade sin quando, durante un ballo scolastico a cui partecipano entrambe le fazioni, Maria (Rachel Zegler), la giovane e innocente sorella di Bernardo, e Tony (Ansel Elgort), un ex membro dei Jets che dopo la prigione ha deciso di cambiar vita, hanno il classico colpo di fulmine e si innamorano a prima vista. Orrore e morte!

Non vogliamo offendere l’intelligenza di nessuno, aggiungendo lo scontato corollario secondo cui una storia melodrammatica del genere si può dipanare, e cioè che tale amore impossibile si infrangerà nel clima d’odio che divora le due comunità, fino ad un tragico finale di sangue, morte e dolore, che, però, forse alla fine ci aiuterà a riflettere sull’assurdità di tale situazione. Amen.

L’intuizione, giusta, del democratico Spielberg è stata quella – intelligente come altro non ci saremmo aspettato da lui – di pensare che quanto accadeva più di sessant’anni fa, oggi, purtroppo, accadrebbe anche oggi in un modo non molto diverso e cioè che il razzismo inveterato nella società americana (e purtroppo non solo lì) vive e alberga nella società attuale, così, o forse peggio, al pari di più di mezzo secolo fa.

La nuova versione – per la sceneggiatura di Tony Kushner  che aveva scritto in precedenza per Spielberg Munich (2005) e Lincon (2012), non attualizza al presente la storia dell’originale, se non con piccoli colpi di pollice  che ci aiutano a  capire come praticamente nulla sia cambiato. Perciò la nuova West Side Story resta ambientata negli anni a cavallo degli anni Sessanta ma ci ricorda continuamente come quella storia – al pari di quanto ci raccontava Shakespeare – è e resta drammaticamente attuale.

Detto e riconosciuto, come si conviene, tale meritorio compito politico, restiamo dell’idea che questo remake non ci sembra un lavoro memorabile pur se degno, assolutamente di essere visto e discusso. Siamo certi che la guardia di ferro della cinefilia lo difenderà come un capolavoro – al pari di quanto è avvenuto per il senile film di Clint Eastwood Cry Macho (cfr. https://close-up.info/cry-macho-ritorno-a-casa/) – ma anche con il rispetto necessario che si deve al grande filmmaker americano e il pur eccellente lavoro sulle scenografie o sull’elemento musicale, non ci soddisfa pienamente. Ci sarebbe piaciuto confrontarci con qualcosa di più, e di più inventivo come altre volte Spielberg di aveva abituato.

La sera dopo aver visto il remake, abbiamo deciso di guardare l’originale di Robert Wise e Jerome Robbins, e il paragone resta per noi impietoso e insieme istruttivo – resta un film persino rivoluzionario a partire dai titoli di testa di Saul Bass sull’ouverture delle musiche di Bernstein. Siamo disposti a fare una scommessa che pensiamo di vincere facilmente, sfidando a futura memoria le leggi del tempo. Tra vent’anni, messe a confronto, la qualità estetica e la carica sovversiva della prima versione in cui troneggia nella parte di Maria una indimenticabile Natalie Wood, monumentale anche se doppiata nelle canzoni, risulterà di gran lunga superiore e sovrasterà il remake di Steven Spielberg. Vorremo sbagliarci, ma anche tra John Kennedy e Joe Biden c’è una certa differenza di statura storica.

 

In sala dal 23 dicembre 2021


West Side Story (2021)  Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tony Kushner; fotografia: Janusz Kaminski; montaggio: Sarah Broshar, Michael Kahn; musica: Leonard Bernstein; coreografia: Justin Peck; scenografia: Adam Stockhausen; costumi: Paul Tazewell; interpreti: Ansel Elgort (Tony), Rachel Zegler (María), Ariana DeBose (Anita), David Alvarez (Bernardo), Mike Faist (Riff), Josh Andrés Rivera (Chino), Ana Isabelle (Rosalía), Corey Stoll (Tenente Schrank), Brian d’Arcy James (Agente Krupke), Rita Moreno (Valentina), Maddie Ziegler, Reginald L. Barnes, Mike Faist, David Alvarez, Jamila Velazquez, Sean Jones, Patrick Higgins, Ben Cook, Ricardo Zayas; produzione: Steven Spielberg, Kristie Macosko Krieger, Kevin McCollum per Twentieth Century Fox, Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), Amblin Entertainment; origine: USA, 2021; durata: 156’; distribuzione: The Walt Disney Company Italia.

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