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Dopo 37 anni e 20 film (compresi due episodi di film collettivi), Joel Coen si separa dal fratello Ethan e dà vita a un’opera scritta solamente da lui e prodotta insieme alla moglie Frances McDormand. Per questa scelta Joel decide di cimentarsi niente meno che con uno dei testi chiave della cultura occidentale, ovvero il Macbeth di William Shakespeare, a poco meno di 500 anni dalla sua pubblicazione nel First Folio (la prima pubblicazione completa delle opere di Shakespeare), risalente appunto al 1623.
Ora, decidere di cimentarsi con il Macbeth (che esce direttamente su Apple Tv, ahimè) nell’anno domini 2021, vuol dire trovarsi di fronte ad almeno due scelte fondamentali:
1) optare per una messa in scena filologica e testuale (l’una cosa non implica direttamente l’altra, ovvero è possibile mantenere scene e costumi salvo poi modernizzare il linguaggio decisamente arcaico e non di immediata comprensione anche per il parlante anglofono contemporaneo) oppure modernizzare, come è stato fatto a più riprese, il carattere archetipico dell’intreccio permette trasposizioni in qualsivoglia ambiente sociale e in qualsivoglia tempo;
2) trasporre il testo come se nulla fosse, cioè come se Joel Coen fosse il primo a cimentarsi con il testo shakespeariano o tener invece conto delle numerose trasposizioni già esistenti, soprattutto delle più celebri, fra le quali giova quanto meno ricordare quella del 1948 di Orson Welles e quella del 1971 di Roman Polanski (girata all’indomani del massacro di Cielo Drive dove venne trucidata la moglie Sharon Tate) per tacere de Il trono di sangue di Akira Kurosawa del 1957.
Ebbene non si può certo dire che Joel Coen sia rimasto in mezzo al guado, le sue scelte sono nettissime. Per quanto attiene al primo quesito: trasposizione filologica e testuale, talché – semplificando – il lavoro alla sceneggiatura consiste sostanzialmente in un lavoro di taglio, di ellissi di alcune sequenze, scene del testo originale ritenute meno importanti, non mi pare che nel film ci sia una sola parola che non sia shakespeariana. E per quel che riguarda i tagli da operare il regista si muove nel solco della tradizione, nel senso che le scene centrali e più iconiche del dramma le ritroviamo tutte: dal reiterato incontro con le streghe all’uccisione di Duncan, dalla scena del fantasma di Banquo, al sonnambulismo e alla follia di Lady Macbeth fino alla foresta di Birnam che si muove.
Riguardo al secondo quesito: appare evidente che il film mira parecchio in alto (com’è giusto che sia per un regista del suo calibro), ossia intende confrontarsi niente meno che con il Macbeth più importante e più celebre di tutti, ossia con quello di Orson Welles. Lo fa a partire da una scelta meno “scandalosa” nel 1948, ma decisamente originale nel 2021, ovvero il bianco e nero oltre a ritornare al formato che è quello antico a francobollo del 4/3; ed è – se non andiamo errati – il secondo film in cui Joel Coen decide di optare per la soluzione del b&n, l’altro era L’uomo che non c’era vent’anni fa, ovviamente insieme al fratello.
Mi pare di poter dire che la relazione con il Macbeth di Welles sia da rintracciarsi in almeno tre aspetti: la assoluta centralità della regia, l’anti-realismo e soprattutto l’evidente richiamo al cinema tedesco (e più in generale nordico, cfr. Carl Theodor Dreyer) degli anni ’20, forse con la differenza che Welles si ispira più nettamente al cinema della prima metà degli anni ’20, il cinema pitturale volgarmente definito come espressionista, mentre Coen appare molto più attratto dal cinema tedesco della seconda metà degli anni ’20, quello cioè della Nuova Oggettività, soprattutto nella geometrizzazione degli spazi che ricordano i film di Georg Wilhelm Pabst e quelli meno fantastici e/o fantascientifici di Fritz Lang, tipo M. – il mostro di Düsseldorf o Il testamento del dottor Mabuse. Negli uni come negli altri appare comunque decisivo il ruolo dell’ombra in funzione perturbante (“unheimlich” nella accezione freudiana) a cui sia Welles che Coen abbondantemente ricorrono. A ciò – e anche qui il riferimento a Welles appare marcato – occorre aggiungere, soprattutto nelle scene che vedono protagoniste le streghe, il ricorso a certo cinema “mostruoso” soprattutto americano dei primi anni ’30, Freaks di Todd Browning fra tutti.
Questo carattere clamorosamente citazionista del film è di certo convincente anche se, inutile negarlo, potrebbe lasciare qua e là un po’ freddini. Interessante e anodina la scelta forse più vistosa del film ovvero quella di affidare i ruoli principali a un attore (Denzel Washington) e un’attrice (Frances McDormand) decisamente avanti con gli anni. Basti dire che, giusto per citare i Macbeth più famosi al cinema: Welles aveva 33 anni al momento di interpretare il film, Jon Finch, il Macbeth di Polanski ne aveva 29, Toshiro Mifune nel film di Kurosawa ne aveva 37 e anche Michael Fassbender, nell’ultimo (adesso penultimo) Macbeth, quello di Justin Kurzel del 2015 ne aveva 37. Washington è del 1954, e quindi all’uscita del film ha 67 anni, stesso discorso per Frances McDormand, sessantaquattrenne.
Questa scelta, in un film che non ambisce certamente, anche dato il suo estremo formalismo, a mettere in primo piano l’analisi psicologica, finisce, non sappiamo quanto volontariamente, per conferire alla parabola sul potere che il testo descrive una sorta di postrema valenza rivendicativa, una sorta di rappresaglia quasi fuori tempo massimo, come se il motore fondamentale che muove le azioni dei protagonisti fosse una specie di nietzscheano risentimento. Va detto che mentre Frances McDormand rivela come forse mai uno straordinario e variegato potenziale drammatico che francamente non le conoscevamo, Denzel Washington (che fra l’altro ha fatto un lavoro meno accurato sulla “ripulitura” della sfumature yankee del linguaggio) è sembrato un po’ troppo ingessato in un ruolo che con tutta evidenza non gli calza a pennello, anche se qua e là lascia intravedere alcuni tratti di una personalità totalmente manipolata o dal fato (le streghe) o dalla moglie, configurandosi come una specie di riedizione del Billy Bob Thornton dell’Uomo che non c’era.
Resta, ovviamente, la grande domanda: come mai Ethan si è sfilato? Una possibile risposta: lo sceneggiatore vuole scrivere, vuole creare, vuole inventare. Qui lo sceneggiatore, lo scrittore, il creatore c’è già, è un signore che si chiama William Shakespeare.
Dal 14 gennaio 2022 su Apple TV
Cast & Credits
The Tragedy Of Macbeth – Regia: Joel Coen; sceneggiatura: Joel Coen; fotografia: Bruno Delbonnel; montaggio: Lucian Johnston, Reginald Jaynes; interpreti: Denzel Washington (Macbeth), Frances McDormand (Lady Macbeth), Brendan Gleeson (Duncan); produzione: A24, IAC Films; distribuzione: Apple TV; origine: USA 2021; durata: 105′
