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Voto
Se tra le varie ipotesi per rinnovare l’immagine dell’agente 007, la più celebrata e iconica delle spie letterarie e cinematografiche, c’è quella di sostituire il defunto James Bond (già piuttosto crepuscolare nell’ultimo ciclo della saga, con Daniel Craig protagonista e il tandem tra Sam Mendes e Cary Fukunaga) con una spia donna, questo Secret team 355, titolo non proprio accattivante, potrebbe essere una sorta di prova generale moltiplicata per cinque. Tante sono infatti le super agenti dell’intelligence di diverse nazionalità (Usa, Sudamerica, Cina, Germania) che si uniscono, dopo un’iniziale diffidenza, per evitare che un sofisticato marchingegno in grado di far collassare i sistemi operativi di tutte le più grandi capitali del mondo e mettere in ginocchio nazioni e popoli (con una sottolineatura scontata ma efficace della marcata dipendenza del mondo contemporaneo dal controllo della rete globale), finisca nelle mani del cattivo di turno (il solito miliardario avido e spietato).
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Questa non particolarmente originale MacGuffin permette di schierare il vero pezzo forte del film diretto da Simon Kinberg, conosciuto più come produttore e sceneggiatore all’interno della saga degli X-Men (ha curato la regia del capitolo dedicato a Dark Phoenix), ovvero la parata internazionale di star femminili a cominciare dall’americana Jessica Chastain, recente Oscar per Gli occhi di Tammy Faye, che si allontana per un attimo dagli sguardi visionari e introspettivi attraverso cui siamo abituati ad ammirarla (Malick, Bigelow, Ullman, il remake tv di Scene da un matrimonio) per ritrovarcela catapultata dentro il suo personale, plausibilissimo avatar di donna guerriero, una versione mission impossible delle ugualmente toste, ma ben più complesse e ambigue, Molly (Molly’s game), Miss Sloane o Maya di Operazione Zero Dark Thirty; a seguire la spagnola Penelope Cruz , che qui interpreta il ruolo più intimista e delicato, “la psicologa delle spie” , la kenyota Lupita Nyong’o (forse la più abituata a combattimenti e missioni , tra le fratricide battaglie futuristiche del marveliano Black Panther e la guerriglia nei sotterranei balneari dell’allegorico horror Noi), la tedesca Diane Kruger e la cinese Bingbing Fan (la più inedita del gruppo).
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Ci troviamo principalmente di fronte alla costruzione di un meccanismo spettacolare che vorrebbe generare nuove icone e fondare un nuovo immaginario , o forse dovremmo dire un immaginario 2.0 perché già Angelina Jolie aveva provato, senza particolare successo, a creare un personaggio femminile epico e carismatico di spia donna, tutto azione e fisicità, con Salt , anche se poi in realtà è stato accolto meglio il successivo Spy, versione parodica di quella stessa tipologia di ruolo, dove la simpatica caratterista over size Melissa McCarty interpretava un’ agente pasticciona e dalla battuta pronta: come a voler smontare, in fin dei conti, la credibilità di una donna calata dentro una specifica situazione convenzionalmente abitata dalle identità maschili dei Bond, dei Jack Ryan o dei Jason Bourne.
Tutto questo sentore di operazione costruita a tavolino, di rinuncia più o meno programmatica ad un qualsivoglia, indispensabile punto di vista a partire dal modo in cui si filma lo spazio (la prima inquadratura su una foresta colombiana è stata effettuata con un drone), apre chiaramente ad una riflessione più ampia su quanto l’autorialità o, senza scomodare un termine cosi ingombrante, la paternità filmica nelle saghe franchising (o aspiranti tali) sia ascrivibile al regista oppure al produttore. La domanda è ancor più pertinente visto che Kinberg, come dicevamo, nasce come “executive producer” e sembra guidato più da questo tipo di attitudine, dalla volontà di lasciare un’impronta che è, fuor di metafora , principalmente un marchio di fabbrica; la sapienza artigianale, aggiornata alla possibilità dell’effetto speciale, di mettere in scena un intrattenimento roboante, patinato, seducente. Le cinque combattenti, in particolare Chastain, che figura tra i produttori e si prende anche in scena la fetta più grossa di spazio e attenzione, e Kruger, fanno a botte prima tra di loro (in una riuscita scena sotto la metropolitana di Parigi) e poi con i maschi, spesso a mani nude o con oggetti usati come armi improprie, eppure riemergono sempre perfette, eleganti, bellissime anche nelle loro mises da combattimento, pronte a banchettare a birra e patatine dopo aver raggiunto l’obiettivo di una missione, con annesso momento di confidenze e segreti sulla “prima volta” (come spie, chiaro) , in modo da ammiccare, tra un tratto di fard e il segno di un livido, sia al pubblico da commedie chick flick di Sex and the city che ai cultori delle eroine post machismo sull’onda lunga della stagione del Me too.
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“Non dobbiamo giustificarci sempre per loro”, dice Cruz a Chastain, in preda al senso di colpa per aver creduto al fidanzato doppiogiochista e mercenario, con un programmatico e abbastanza puerile schema che vede il maschio traditore, manipolatore o inerme (il basico complesso edipico del personaggio di Kruger verso il suo capo, il marito casalingo di Cruz o il compagno accomodante di Nyong’ o), in funzione dell’atteso e non inaspettato ultimo atto di riscatto, vendetta e rilancio per una nuova sfida nel nome di una sorellanza e non più di una sudditanza.
Sarebbe ingiusto negare a Secret team 355 (il codice numerico si rifà all’identità rimasta segreta della donna spia che operò un ruolo determinante nella guerra d’indipendenza americana) una capacità di creare nel corso della lunga durata situazioni divertenti e godibili, sparate nelle molteplici locations (Francia , Marocco, Shangai) e riprese nell’ottica di un paesaggio a infrarossi da videogame, fruibile anche sullo schermo di un cellulare, oggetto feticcio per controllare, seguire, orientarsi ed agire all’interno di questo scenario; in questo senso il personaggio chiave, a cui viene delegata una sorta di regia diegetica all’interno della narrazione, è quello della super hacker interpretata da Nyong’ O, che guida e dà indicazioni costanti e continue alle sue compagne attraverso un dispositivo mobile in grado di identificare qualsiasi loro nemico e ogni suo relativo movimento, da ogni angolazione e prospettiva. Come se, non graziate dall’incanto della visione depalmiana sulla natura ambivalente dell’essere Femme Fatale, queste donne, un po’ imbrigliate nello schematismo di corpi fieramente oppositivi e mai pienamente ribelli, cercassero di compensare, nella pluralità nevrotica dei punti di vista, l’assenza di uno sguardo che le renda memorabili più del tempo in cui dura l’ennesimo, obsoleto round della battaglia dei sessi.
In sala dal 12 maggio
Secret team 355 – Regia: Simon Kinberg; sceneggiatura: Simon Kinberg, Theresa Rebeck; fotografia: Tim Maruice -Jones; montaggio: Lee Smith, John Gilbert; interpreti: Jessica Chastain, Penelope Cruz, Diane Kruger, Lupita Nyong’O, Sebastian Stan, Edgar Ramirez, Bingbing Fan; produzione: Jessica Chastain, Kelly Carmichael, Simon Kinberg; origine: USA, 2022; durata: 130’; distribuzione: 01 Distribuition.
