-
Voto
“La più grave piaga che affligge tutta la Sicilia e in particolare Palermo? Il traffico !” . Così sosteneva il personaggio del mafioso da pochade interpretato da Paolo Bonacelli in Johnny Stecchino, uno di quei film fenomeno che annunciavano l’epoca ormai tramontata e un po’ fanfarona dei record d’incassi (siamo nel ’91), con cui Roberto Benigni ammantava di satira sociale, la sua essenza comica fatta di una fisicità e di un linguaggio iperbolici e giocosi. A distanza di più di trent’anni si torna a parlare in chiave potenzialmente dissacrante della mafia e dei suoi cliché da operetta in Koza nostra, che, fin dal tiolo linguisticamente contaminato, rimanda all’aspetto più singolare di questo progetto: il soggetto è infatti stato scritto da una sceneggiatrice ucraina, Anastasiia Lodkina, ben prima dell’attualità di guerra che stiamo vivendo (e con cui non ha nessuna attinenza, se non contingente), ed era stato acquistato dalla Pepito Produzioni di Agostino Saccà che, insieme anche a Rai Cinema, ne ha fatto un viatico per l’esordio nel lungometraggio di Giovanni Dota.

L’idea, che per chissà per quale motivo dev’essere parsa irresistibile, è quella di far incontrare lo stereotipo nostrano della famiglia “scoppiata” di un boss mafioso, rivisitata da un senso di precarietà e di sfaldamento piuttosto contemporaneo, con quello della badante dal cuore d’oro proveniente dall’Est Europa, che stravolge tutti i piani e le faide tra clan, con il suo temperamento dolce e risoluto. Questa lei, madre premurosa e saggia e matriarca attesa e inaspettata, si chiama Vlada (interpretata da Irma Vitovska, attrice molto popolare in Ucraina) e incontra per un bizzarro incidente gli strambi e disfunzionali Laganà capitanati senza più direzione da Don Fredo (Giovanni Calcagno, il migliore del cast nel dare una nota decadente e basita alla sua parodia di padrino), appena uscito di galera e con tante pressioni provocate in particolare dalla sua eterogenea e variegata prole (c’è il pasticcione spavaldo un po’ scemo, il nerd intelligente ma inerme e l’unica ragazza del gruppo, oppositiva e sfidante contro l’autorità paterna con tanto di figlio gender fluid a carico…. ).

Come una Mary Poppins emigrante dal passaporto fuori tempo massimo, la donna, venuta in Italia ma respinta dalla figlia per quell’ingombrante e soffocante attitudine a prendersi cura di tutto e tutti, ribalterà il segno e la direzione di ogni gesto ( “facciamo le pulizie!” , le dicono i Laganà per proteggerla dai loro giri loschi ), evitando di rimanere impantanata nel poco sangue di carneficine stilizzate e trasfigurate, ma non troppo, da un acerbo gusto del grottesco.
Il grosso limite di quest’ opera prima sta proprio nel voler giocare una carta audace come l’intersecarsi fluidamente tra generi e prospettive (il gangster movie con la farsa) ma rimanere un oggetto ibrido un po’ incerto e meccanico, abbastanza greve nella messa in scena dove un dichiarato gusto del giovane Dota verso il noir di ovvia matrice tarantiniana è frenato e inibito dalla necessità di offrire spazio narrativo al personaggio piuttosto ingolfato di Vlada: la sua tenuta naif da casalinga del paese della porta accanto che risolve ogni contraddizione con un colpo di aspirapolvere e qualche pacca consolatoria appare costruita, artefatta, appiccicata come la figurina di un album su un immaginario impoverito fino alle funzioni basiche di macchiette che devono suscitare empatia e ilarità.

C’è qualche idea che viene esposta e illustrata, ma senza la forza di un’ispirazione compatta che tiene insieme il guizzo autoriale della sparatoria coreografata da far west di provincia (lo scontro degli improbabili Laganà con un clan della rivale mafia nigeriana, incluso un macabro rito propiziatorio maldestramente interrotto dai fratelli Laganà all’interno di un cimitero), con l’impronta da sitcom di una tv generalista sui vizi e le virtù di un nucleo affettivo e relazionale fuori dal comune per fatti e scenari da un lato e riconoscibile per dinamiche e circostante dall’altro; non si c’entra quasi mai il tabellone da 1000 punti di una satira che, per essere veramente tale, dovrebbe almeno fiancheggiare la statura epica e archetipica della mafia, tanto usata e abusata dal racconto cinematografico in qualsiasi chiave e da qualsiasi prospettiva.
Qui si rimane invece sulla superficie, ma non nella leggerezza, di un cartone animato in carne e ossa, la cui bidimensionalità è appena attraversata da qualche sussultante invenzione visiva, in primis il piccolo nipote del boss che appare e scompare mascherato, muto e cangiante come il fantasma di un mondo tra decadenza e futuro. Consapevoli di assistere a un aspirante teatro dell’assurdo rispolverato sotto le macerie di uno scherzo che possiede la durata e l’efficacia neanche troppo più lunga di quella di una battuta di trent’anni fa.
In sala dal 19 maggio
Koza nostra – Regia: Giovanni Dota; soggetto: Anastasiia Lodkina; sceneggiatura: Anastasiia Lodkina, Giovanni Dota,Giulia Madga Martinez, Matteo Visconti; fotografia: Andrea Benjamin Manenti, Carlo Rinaldi; montaggio: Giorgia Currà; musica: Andreas Russo; interpreti: Irma Vitovska, Giovanni Calcagno, Giuditta Vasile, Lorenzo Scalzo,Gabriele Cicirello, Maurizio Bologna, Adriano Pantaleo ; produzione Maria Grazia Saccà, Agostino Saccà per Pepito Produzioni; origine: Italia,Ucraina 2022; durata: 103′; distribuzione: Adler Entertaiment.
