L’estate, in Norvegia, è un fenomeno del tutto particolare: il sole non cala mai, il mondo sembra sonnecchiare pensieroso fra le braccia di un’eterna ora blu. Ogni pomeriggio è uguale al precedente, ogni alba è uguale al tramonto. Le strade si svuotano, sulle città soffia un’insolita brezza marina che scompare non appena ci si allontana dal centro e ci si avvicina alle montagne. La solitudine si fa più spessa e più tagliente, così come s’acuisce quell’inquietante e rabbioso smarrimento che l’inverno, con i suoi mille impegni, tende a sopprimere. Le poche creature rimaste in circolazione passeggiano in una specie di sogno collettivo, dimenticandosi perfino i propri pensieri. Si vive alla giornata: Asta, una giovane giornalista dall’occhio vitreo e dal volto impenetrabile, ha fatto dell’estate un imperativo esistenziale.
È la seconda volta che il regista Anders Emblem, dopo un breve esordio con Hurry Slowly (2018), si pone dietro alla cinepresa. A Human Position è un film-fotografia, un lungometraggio depauperato della sua stessa essenza di lungometraggio: la Scandinavia immortalata dall’autore è, per l’appunto, immortalata, intrappolata all’interno di una cornice imperturbabile.
La storia è una non-storia: la protagonista si aggira per le vie tortuose di un anonimo paesino, pigramente accoccolandosi alla scrivania di casa, becchettando fettine di mela, lavandosi i denti e registrando il dolce far niente dei suoi simili. L’estate è una condizione comune: qualcuno inaugura una nuova nave da crociera, qualcuno spia da lontano un incidente d’auto avvenuto chissà dove e chissà quando, qualcun altro tenta di stiracchiarsi organizzando piccole proteste a tema ambientale. Gli attori sono non-attori, i personaggi sono persone: Asta (Amalie Ibsen Jensen) e Live (Maria Agwumaro) condividono l’appartamento e, forse, un passato tumultuoso che l’obiettivo sceglie di non svelarci. Le due ragazze quasi non si parlano, se non attraverso gesti e sguardi di cui è difficile identificare la natura. Inoltre, la pellicola manca di movimento: i fotogrammi rimangono fra loro slegati come le tessere di un puzzle incompleto.
Il Grande Nord visibile su questa strana polaroid possiede qualcosa di familiare: abbiamo come l’impressione di aver già conosciuto la blue hour qui ritratta, forse l’abbiamo incontrata nei film della “Berliner Schule”. Impossibile, specialmente per gli adepti della cosiddetta Scuola Berlinese, non rievocare la metropoli semideserta e innaturale di Angela Schanelec (Mein langsames Leben, 2001; Nachmittag, 2007), l’antinferno periurbano di Christian Petzold (Gespenster, 2008) o la polverosa provincia di Ulrich Kohler (Bungalow, 2002). Chi, invece, non avesse masticato troppo Nuovo Nuovo Cinema Tedesco, può sempre ricorrere al grande veterano Eric Rohmer, dalle cui desolate Banlieues pare sprigionarsi l’intero universo contemporaneo. A Human Position spilucca un po’ da tutti i piatti, proprio come Asta mordicchia svogliatamente alcuni succosi cubetti di frutta dal tavolo della colazione.
La precarietà messa in scena da Anders Emblem è simile a quella già tratteggiata dai suoi illustri predecessori: gli attori non-attori vagano come fantasmi in esilio, imprigionati nella cupa utopia di una Storia nata dopo la Storia. La Francia, la Germania o, in tal caso, la Norvegia, rappresentano a pieno titolo un primo mondo di plastica, una realtà che di reale non ha più nulla: Asta e Live, infatti, sopravvivono all’interno di una quotidianità perennemente identica a sé stessa, labile come un filo sgualcito. Per un breve istante, il sospetto che qualcosa non vada fa capolino sul grande schermo. In questo caso, l’imprevisto striscia sul palcoscenico sottoforma di un immigrato espulso dal Paese in seguito ad un incidente sul lavoro. Ma l’estate, come abbiamo detto, è una condizione permanente e la protagonista non conoscerà mai il volto di chi, alla sua torbida monotonia, non ebbe mai accesso. Alla giovane non rimarrà che accettare il suo status di prigioniera, e tornare dalla compagna a restaurare vecchie poltrone.
La posizione umana fotografata dal regista è, in effetti, quella A Human Position seduta: il lungo solstizio norvegese non tollera fluttuazioni che possano destabilizzare uno spaziotempo invariabile. Come spesso accade nel microcosmo cinematografico della Schanelec, anche qui l’azione si nasconde all’obiettivo, collocandosi al di fuori della parabola narrativa ed evitando il nostro sguardo. A definire l’essere umano sono i luoghi spogli e dissestati ch’egli si ostina ad abitare. Qualsiasi tentativo d’evasione viene soppresso sul nascere, l’oggi è una terra incognita ancora in piena fase di ristrutturazione. Ad Asta, così come a noi spettatori, non rimane che sedersi, attendendo pazientemente la fine dell’estate e l’inizio di un nuovo inverno.
Cast & Credits
A Human Position – Regia: Anders Emblem; sceneggiatura: Anders Emblem; fotografia: Michael Mark Lanham; montaggio: Anders Emblem; interpreti: Amalie Ibsen Jensen (Asta), Maria Agwumaro (Live); produzione: Vesterhavet; origine: Norvegia 2021; durata: 78’.