Festa del Cinema di Roma: Ernest Cole, Lost and Found di Raoul Peck (Best of 2024)

“Trecento anni di supremazia bianca in Sudafrica ci hanno messo in schiavitù, ci hanno privato della nostra dignità, della nostra autostima e ci hanno circondato di odio”. Ernest Cole, da House of Bondage (1967).

Anche se il suo nome è rimasto sconosciuto ai più, il fotografo sudafricano Ernest Cole fu probabilmente uno degli artisti nativi che più di tutti contribuì con le sue fotografie a far conoscere il reale e sistemico apartheid in cui viveva il Sudafrica negli anni Sessanta. Il regista Raoul Peck dopo Lumumba (2000) e I Am Not Your Negro (2016) torna con Ernest Cole, Lost and Found – presentato al Festival di Cannes quest’anno – a occuparsi di un altro protagonista della lotta contro il razzismo endemico.

Ernest Cole comincia da giovane fotografo freelance a documentare la vita negli slums, i quartieri a prevalenza nera, della grande metropoli di Johannesburg. Qui la minoranza bianca degli afrikaner, sfruttando vecchie e nuove leggi segregazioniste che regolano l’educazione, il lavoro e la vita sociale, opprime la maggioranza nera. Le fotografie di Cole testimoniano pregiudizi ed ingiustizie, raccolgono evidenze: i grandi cartelli con la scritta ‘White Only’ all’ufficio postale, le entrate separate per soli europei bianchi; ma anche il lavoro dei minatori nelle miniere di oro e diamanti, la quotidianità per le strade, negli ospedali e nelle scuole. In pratica tutto il suo lavoro, quasi in contemporanea alla lotta contro l’apartheid di Nelson Mandela, ha rinfacciato alla popolazione sudafricana di essere molto più reazionaria di quello che avrebbe voluto credersi, proprio perché ha sempre spudoratamente negato il palese razzismo di cui era intrisa.

Il documentario si affida visualmente al bianco e nero delle fotografie di Cole per ricostruire il lavoro dell’artista. 60.000 negativi e fotografie, che si credevano perduti, sono stati ritrovati nel 2016 in una cassetta di sicurezza a Stoccolma, in Svezia, in circostanze abbastanza misteriose e ancora da chiarire. Mentre è l’attore americano LaKeith Stanfield a dar voce (in voice over) al protagonista.  Grazie alle poche testimonianze rimaste, in prevalenza lettere e fotografie ritrovate, si cerca di ricostruire una biografia attendibile dell’artista, con le tappe e gli spostamenti che si conoscono.

Nel 1966, Cole fugge dal Sudafrica, portando con sé di nascosto gran parte dei suoi negativi. Le foto ricavate da questi andranno a costituire il suo primo e unico libro, House of Bondage, uscito nel 1967, che per quanto l’abbia reso conosciuto, è rimasto censurato in patria. Alla pubblicazione del libro segue un lungo esilio negli Stati Uniti che si rivela molto diverso dalle aspettative di Cole. Le fotografie scattate a New York e nel viaggio attraverso gli States, Alabama, Illinois Washington DC, Sud Carolina, mettono in luce il razzismo, l’ingiustizia e le discriminazioni a cui anche qui è costretta la popolazione nera. Le lettere ai vari conoscenti rivelano una grande delusione e un’assenza di alternative concrete per il fotografo. Per quanto sia riuscito a raggiungere lo scopo di mostrare nel suo libro gli abusi razziali, allo stesso tempo, è costretto a confrontarsi con la triste realtà che nessun posto al mondo è libero dai pregiudizi di razza.

Un incontro fortuito gli permette di entrare in contatto con il fotografo svedese Rune Hassner, che lo aiuta ad organizzare mostre dei suoi lavori a Stoccolma, città in cui tornerà spesso e regolarmente fino al 1972. Il girovagare fra America ed Europa si protrae fino agli anni Ottanta, dopo di che, Cole, depresso per l’esilio e ormai isolato anche in campo artistico, smette di lavorare e non fotografa più. Muore a 49 anni di cancro al pancreas e solo con la sua morte, il suo corpo ridotto in ceneri, avrà il permesso di tornare in patria, in Sudafrica.

Come dicevamo il film di Peck lavora su tre importanti aspetti della vita del fotografo. Da una parte mette in evidenza le principali caratteristiche del suo lavoro fotografico e politico, dall’altra traccia gli estremi geografici della mancante biografia. Oltre a ciò, ci consegna un’acuta analisi sulla perdita di identità di un artista costretto all’esilio. Ernest Cole come James Baldwin (in I Am Not Your Negro) rimarrà per tutta la vita un personaggio non allineato, scomodo, che pagherà con la sua sofferta esistenza le scelte prese contro corrente. Dopo il successo internazionale del suo libro e l’esilio negli Stati Uniti si ritrova da rifugiato a vivere lo stesso tipo di razzismo vissuto in patria, ma in una situazione esistenziale ancora più precaria che in Sudafrica e senza nessun supporto economico. L’esilio, secondo l’analisi di Raoul Peck è una piaga della società moderna, perché amplifica il senso di mancanza di radici e impedisce la possibilità di costruire un ponte fra culture, così che l’esiliato finisce per sentirsi straniero in ogni luogo.

Invece il regista haitiano (ma esiliato dal Congo), che ha studiato ingegneria e cinema a Berlino, i ponti  fra culture li sa costruire e ci consegna, seppur in una forma meno aulica e d’impatto dei suoi precedenti film, un intenso e politico ritratto d’artista.


Ernest Cole: Lost and Found  – Regia e sceneggiatura: Raoul Peck; fotografia: Wolfgang Held, Moses Tau; montaggio: Alexandra Strauss; musica: Alexei Aigui; voce narrante: LaKeith Stanfield; produzione: Velvet Film, Arte France Cinéma; origine: Francia/ Stati Uniti, 2024; durata: 105 minuti.

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