Mike di Giuseppe Bonito

  • Voto
3.5

In quest’anno in cui si celebrano i 100 anni delle trasmissioni radiofoniche e i 70 della RAI non poteva mancare un biopic dedicato a chi per almeno venticinque anni è stato l’emblema della televisione di Stato, ovvero Mike Bongiorno (1924-2009), di cui, appunto, ricorre il centenario dalla nascita, celebrato anche con una importante mostra a Palazzo Reale a Milano.

Il biopic ha la forma di una miniserie della durata complessiva di 200 minuti, trasmessa per due giorni consecutivi in prima serata (si fa per dire: si comincia alle 21:45) su RaiUno, adesso la si può già vedere su RaiPlay. A fungere da canovaccio è l’autobiografia dello stesso Mike Bongiorno, scritta a quattro mani col figlio Nicolò e pubblicata nel 2007, due anni prima della morte, dal titolo La versione di Mikedieci anni esatti dopo la “version” più famosa, ovvero quella di Barney, scritta da Mordecai Richler, nel 1997 appunto.

Molte delle cose “sorprendenti” che apprenderà lo spettatore vedendo la serie erano dunque già presenti nel testo autobiografico; fra di esse spicca, naturalmente, il passato di Mike Bongiorno come staffetta partigiana, il fatto di essere stato per ben due volte di fronte a un plotone di esecuzione, la prigionia nel carcere di San Vittore, il soggiorno in diversi campi di prigionia in Alto Adige e in Austria. Ciò che  ha sempre salvato il protagonista è stata la sua cittadinanza americana, una circostanza che gli ha permesso, almeno un paio di volte, di partecipare a scambi fra prigionieri. Ciò che invece anche lo spettatore meno informato probabilmente già sapeva era il fatto che Mike è figlio di una famiglia italo-americana: madre torinese e padre newyorchese, egli stesso figlio di un padre emigrato dalla Sicilia e che la sua vita, almeno fino al 1954 (l’anno in cui appunto la RAI inizia le trasmissioni televisive) la sua vita era stata equamente divisa fra l’America (l’infanzia e i primi anni del Dopoguerra) e l’Italia (l’adolescenza, gli studi ginnasiali, la giovinezza durante la guerra e da partigiano).

A una visione disincantata e per quanto possibile scevra da pregiudizi mi pare che la serie ponga tre questioni fondamentali a cui cercherò di dare risposta. Prima questione di natura strutturale legata al genere dl biopic: come raccontare questa vita? Seconda questione di natura mediale: che uso fare della valanga di materiale documentario? Terza questione di natura, diciamo così, politico-culturale: che funzione ha un biopic su Mike Bongiorno all’altezza del 2024 con i chiari di luna politici nei quali ci troviamo oggi a vivere? Piuttosto semplici le risposte alle prime due questioni, un po’ più complessa la risposta alla terza domanda.

Prima, e più lunga, questione: come raccontare questa vita? Il regista Giuseppe Bonito – che ha firmato, per il cinema, sia il progetto ereditato da Mattia Torre Figli [2020] che il film tratto da L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio [2021]) – e lo sceneggiatore Salvatore de Mola, con alle spalle una carriera prevalentemente televisiva e la sceneggiatura di molte serie poliziesche come Il commissario Montalbano, Imma Tataranni e recentissimamente Kostas, ma anche sceneggiatore e co-sceneggiatore di altri biopic della RAI, come quello su Guglielmo Marconi e quello su Arnoldo Mondadori) scelgono di partire da un espediente fictional, ovvero un’intervista rilasciata da Mike Bongiorno all’inizio degli anni ’70, allorché, sul piano professionale, grazie a Rischiatutto (prima trasmissione nel febbraio del 1970) era tornato in grande spolvero ai vertici della notorietà (dopo un periodo di appannamento coincidente, grosso modo, con il Sessantotto e gli immediati postumi) e, sul piano personale, stava nascendo la storia d’amore con Daniela Zuccoli (produttrice della serie), dopo due matrimoni poco fortunati.

L’intervista, condotta con cipiglio e un certo sadismo da un giornalista, un personaggio inventato che risponde al nome di Sebastiano Sampieri e viene splendidamente interpretato da Paolo Pierobon, permette un’operazione a flash-back in cui Mike ripercorre alcune delle tappe fondamentali della sua vita che ci vengono poi mostrate; dall’altro, come dire, il giornalista rappresenta una sorta di metalessi narrativa di tutte le riserve culturali, ideologiche che a quella data, soprattutto a quella data, una certa intelligentsja, verrebbe da aggiungere, soprattutto di sinistra nutriva nei confronti di Mike Bongiorno, impareggiabile gaffeur, emblema del nozionismo, della mediocrità e dell’istupidimento generale provocato dalla televisione, colpevole di intorpidire anziché tenere desto il senso critico della massa – insomma tutto ciò che, fin dal 1960, era stato verbalizzato con una certa malvagità e un certo sussiego da Umberto Eco, in quella Fenomenologia di Mike Bongiorno che, a rileggerlo oggi, rivela tutta la sua derivazione adorniana e la strumentazione teorica ancora piuttosto povera nell’affrontare quel fenomeno che si è soliti chiamare pop.

Saranno gli occhiali, sarà la barba ma Sampieri sembra proprio una variante di Umberto Eco. La parte dedicata all’intervista è forse la migliore fra quelle presenti nella miniserie perché esplicita una tensione drammatica a tratti feroce che solo verso la fine riesce a stemperarsi.

Quanto al flash-back, ai flash back, il film ripercorre tutte le vicende (in parte già citate) più drammatiche, sia sul piano macrostorico che sul piano personale, che Mike Bongiorno si è trovato ad attraversare: dalla precoce separazione dei genitori (il padre resta a New York fin dalla fine degli anni ’20, Mike e la madre, amatissima, tornano a Torino), alla guerra, alla resistenza, la scissione a tratti straziante fra America e Italia, il rapporto controverso col padre che, fra le altre cose rifiuta di pagargli le tasse per farlo studiare in un college americano, fin quando Mike, in concomitanza con la nascita della televisione, opta in via definitiva per l’Italia, grazie al patronage di Vittorio Veltroni, autentico pioniere e talent scout e che, nella vita di Bongiorno, assurge seppur per breve tempo (muore neanche quarantenne nel 1956) al ruolo di padre sostitutivo.

Un giudizio complessivo sulla messa in scena dei flash-back deve per forza essere controverso: funziona piuttosto bene sul piano dei dialoghi, anche in grazia di attori mediamente piuttosto bravi, zoppica, perché risulta un po’ troppo posticcia, qua e là nella ricostruzione della New York pre- e postbellica (che suona tanto wannabe The Godfather) e anche tutte le scene di guerra e resistenza ricordano più la parodia dei tedeschi de La vita è bella.

Sul piano della struttura la serie obbedisce non tanto alle scansioni di un romanzo di formazione, anche nella sua versione cinematografica aggiornata del raggiungimento dell’american dream di self made man  (Eco avrebbe detto dell’everyman), quanto piuttosto a una vicenda picaresca, costantemente segnata da alti e bassi che inducono il protagonista, ogni volta, a rimboccarsi le maniche, ad affidarsi al proprio talento e alla propria forza di volontà. Per concludere la disamina su questo primo punto: non si può non condividere la scelta di chiudere la serie all’altezza dei primi anni ’70, ché, probabilmente, documentare anche il tardo Mike, quello, diciamo, che passa a Fininvest e, con assoluta precocità, sposa la politica mediatica e forse la politica tout court di Silvio Berlusconi, avrebbe finito per cozzare contro il carattere di esemplarità, di emblematicità di Mike Bongiorno, che questa serie intende fornire, finendo per rappresentarne anche derive di progressivo decadimento, decisamente kitsch. Convince appieno anche la scelta di affidare l’interpretazione di Mike a due attori diversi, entrambi molto bravi, ovvero al giovane Elia Nuzzolo e a Claudio Gioè, a tratti perfetto nella ripresa NON parodistica di certe inflessioni, mantenendo, credo, volutamente la “s” sorda che “tradisce” l’origine siciliana di Gioè anziché normalizzarla, ovvero piemontesizzarla – e anche certe vocali più chiuse o più aperte vanno nella stessa direzione. La prosodia di Gioè è invece identica a quella di Mike. Ed era molto difficile non ricadere nel rischio imitazione, visto che Bongiorno da Alighiero Noschese a Fiorello è uno dei personaggi televisivi più imitati.

Con la seconda e anche con la terza questione me la cavo più rapidamente. Partiamo dalla seconda, riassumibile con la domanda: quanto re-enactement si sono concessi regista e sceneggiatore? Molto ma non troppo, soprattutto per quel riguarda la storia della televisione italiana il rischio era di farsi prendere la mano, sceneggiatore e regista sono stati bravi e contenuti. Anche con le somiglianze di altri personaggi televisivi, chiamiamoli minori (Antonello Falqui, Vittorio Veltroni, Carlo Fuscagni, Sabina Ciuffini, la valletta NON muta di Rischiatutto) le scelte non hanno mai rischiato di cadere nell’imitazione, la stessa Daniela Zuccoli non assomiglia granché alla moglie di Mike da giovane. In generale corre l’obbligo di sottolineare ancora una volta il livello mediamente piuttosto alto degli interpreti (anche a confronto con certe serie di Netflix dove, quando va bene, c’e un attore bravo/un’attrice brava e il resto: per carità!), l’attore italo-americano Tomas Arana che interpreta il padre di Mike, ad esempio, è molto molto bravo.

Terza e ultima questione: che funzione ha un biopic su Mike Bongiorno all’altezza del 2024 con i chiari di luna politici nei quali ci troviamo oggi a vivere, al di là dell’evidente omaggio autocelebrativo della RAI? Non da oggi la prima serata di RaiUno è il luogo privilegiato a veicolare una certa qual ideologia dominante di chi è al governo, di chi controlla la rete di Stato, al momento in cui il film/la serie viene ideato, prodotto, allestito, trasmesso – i tempi lunghi peraltro talora complicano la vita, forse qualcuno ricorderà le vicissitudini de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, concepito dal governo Prodi come progetto di unità nazionale, ma trasmesso, fra mille turbolenze, quando nel frattempo era salito al potere Silvio Berlusconi. Quel che, diciamolo esplicitamente, sorprende di questa miniserie ideata, prodotta, allestita e trasmessa sotto quella che viene chiamata volgarmente TeleMeloni è il fatto che il testo si chiude con il reciproco riconoscimento di Bongiorno e Sampieri, entrambi reduci dalla Resistenza, Sampieri addirittura dalla Brigata Garibaldi, dunque con ogni probabilità aderente al PCI, che, inoltre, si racconta la storia di un migrante di successo, ché Mike Bongiorno questo era, al momento in cui Veltroni padre lo convince a venire e poi a rimanere in Italia. Ma forse sto sovrainterpretando la liberalità e la tolleranza di chi ci governa, forse la miniserie (pur sempre 200 minuti) non l’hanno guardata fino in fondo (l’omaggio alla Resistenza arriva proprio nei titoli di coda). Chissà.

In anteprima alla Festa del Cinema di Roma
In onda su Rai 1 il 21 e il 22 ottobre 2024


Mike – regia: Giuseppe Bonito; sceneggiatura: Salvatore de Mola basato su La versione di Mike di Mike Bongiorno e Nicolò Bongiorno; fotografia: Alfredo Betrò; montaggio: Lorenzo Campera; musica: Giuliano Taviani; interpreti: Claudio Gioè (Mike Bongiorno), Elia Nuzzoli (Mike Bongiorno da giovane), Paolo Pierobon (Sebastiano Sampieri), Valentina Romani (Daniela Zuccoli), Tomas Arana (Philip Bongiorno), Massimo De Lorenzo (Vittorio Veltroni), Clotilde Sabatino (madre di Mike); produzione: Viola Film, RAI, Daniela Zuccoli (produttore associato); origine: 2024, Italia; durata: 196′ (2 x 98′).

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