Festa del cinema di Roma: Les pires di Lise Akoka e Romane Gueret (Concorso Alice nella città)

  • Voto

C’è una cosa che rimane attaccata addosso, senza scampo e senza filtri, alla fine della visione de Les pires di Lise Akoka e Romane Gueret, presentato nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e passato ora anche alla Festa del cinema di Roma all’interno del Concorso di “Alice nella città” dove ha vinto il Premio Do-Cine Rising Star come miglior interprete internazionale a Mallory Manecque: lo sguardo penetrante, ostile e al tempo stesso indifeso, trasparente del piccolo Ryan, ragazzino di una zona periferica del comune francese di Boulogne sur mer. Quello sguardo, come gli altri che incontriamo fin dall’incipit di stampo frontalmente documentaristico (un regista sta facendo dei provini per un film che parla di ragazzi dalle vite difficili e problematiche), contiene e al tempo espande tutta una riflessione rispetto ad un approccio sulla realtà che cerca un incontro, nella costruzione metalinguistica integrata nella narrazione , con una possibile rielaborazione e messa in scena, senza tradirne l’ontologica autenticità.

E già il titolo contiene in sé l’ambiguità di questa distanza e deformazione, o quanto meno, il rischio costante verso cui può andare incontro chi vi si confronta, nella consapevolezza di un ruolo e di una presenza: “State scegliendo solo i peggiori?(Les pires, appunto)”, chiede uno dei ragazzini provinati comprendendo, dalle domande degli autori , la sovrapposizione tra le vite degli interpreti selezionati e i personaggi della sceneggiatura da interpretare, incentrata sulle storie di adolescenti e bambini dalle esistenze già ferite, abusate, costrette ad una precoce maturità per sopravvivenza.

Persone, socialmente connotate a partire dai luoghi marginali e desolati che abitano , alle quali viene assegnato uno stigma , un marchio, una definizione limitante e pregiudiziale. Proprio per questo motivo Les pires , attraverso il racconto di un making off, smonta il processo di identificazione tra l’identità dell’attore non professionista e il suo ruolo nella finzione, scegliendo il percorso impervio di ricostruire un’altra versione di se stessi, lo spostamento in quella zona indeterminata di immaginazione ed elaborazione per contattare ed esprimere la verità di un gesto, di un silenzio e di una parola, e non tanto la corrispondenza pedante e letteraria con un dato biografico. Se la giovane comunità multietnica e stratificata de La schivata di Abdel Kechiche trovava il contrappasso di una voce e di un ascolto nella grande tradizione del teatro, con un allestimento urbano, seppur in costume, de Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux,  la coppia di registi Akoka e Gueret chiamano in causa direttamente il cinema elevato all’ennesima potenza (all’inizio si è portati a pensare che si tratti di un documentario su un film in lavorazione e che il personaggio interpretato da Johan Heldenberg sia il vero regista) e creano una percezione a scatole cinesi dove talvolta si dimentica non solo chi sta interpretando chi, ma anche qual’ è la reale situazione che la persona/personaggio sta vivendo; è il caso della vibrante e luminosa Lily(la stupenda Mallory Manecque, inedita e debuttante come tutti gli altri giovani interpreti) che nella finzione di cui è protagonista rimane involontariamente incinta di un coetaneo e fuori da quel set così vicino e così familiare alla sua quotidianità ( il ragazzo che interpreta il suo fidanzato è un compagno di classe che vede tutti i giorni a scuola ) cerca un forma di facile guadagno frequentando notturne chat erotiche. Nella continuità che scorre, dal vero al falso, c’è il corpo sensuale di innocenza e naturalezza di una ragazzina capace di interpretare lo stato intenso e struggente di una madre troppo in anticipo rispetto ai tempi di una consapevolezza emotiva e psicologica; ma c’è anche una giovane donna che si vive, off screen, nello specchio scuro dello schermo di un PC, l’abisso di un disagio disperso e avvilito dalla compulsione degli sguardi maschili, e la tensione vitale verso un riscatto o, per entrare nel merito, il risanamento di un dolore ( la scomparsa di un adorato fratello più piccolo per una terribile, logorante malattia). Una corrispondenza dunque di sentimenti, di stati d’animo, di fragilità e spaesamenti in cui il cinema attivamente partecipato arriva ad assumere la valenza di una terapia d’urto, un ingresso , accompagnati dal regista quanto mai demiurgo e mentore, nella dimensione intima ed estrema delle emozioni, con il pericolo di uscirne ancora più devastati e feriti o, nella paradossale migliore delle ipotesi, di allontanarsi da una simulazione dietro la quale ci si accorge che non ci si può celare, ma attraverso la quale ineluttabilmente ci si rivela (come accade a un’altra delle ragazze, Maylis, nella suggerita scoperta di una probabile omosessualità).

Ma non si tratta solo di restituire filmicamente un specie di edificante e rassicurante formazione sul campo, e neanche di una forma più o meno esplicita di auto analisi che tiene insieme il raggiungimento di un obiettivo tangibile, collettivo, concreto come  fare un film assieme alla cura dei traumi e all’acquisizione di una consapevolezza su se stessi da parte di interpreti cosi esposti e vulnerabili. Non si esclude l’ambiguità di un tale “esperimento” e se ne esplicano le conseguenze nel corso del tempo, con il capovolgimento, a un certo punto, della prospettiva, per cui il regista, smascherato nella sua manipolatoria e mistificante contraddizione, viene letteralmente messo al muro dalla squarciante non addomesticabilità di uno de suoi indomiti ragazzi di vita.

Come ne La classe-Entre le murs di Laurent Cantet, l’insegnante progressista e umanista (Francois Begaudeau nel ruolo praticamente di se stesso) vedeva rovesciata e messa in discussione la sua filosofia di borghese illuminato dai moti interiori e dai movimenti esteriori degli studenti delle medie di un alto quartiere complesso e difficile(il XX arrondissement di Parigi), cosi chi voleva filmare l’anima e la carne dei “peggiori” si trova a fare con i conti con le proprie pretese, forzature, aspettative. Ma solo in un determinato momento che non sveleremo succede qualcosa di atteso e inaspettato, che indica l’orizzonte di una trasformazione e di un cambiamento. Un pianto liberatorio nel quale si incontrano almeno due nuovi inizi: l’irrefrenabile stupore degli occhi aperti sul mare dell’Antoine Doinel truffautiano e la struggente tenerezza di una mano protratta in una richiesta d’aiuto del giovane Ahmed dardenniano, nel tempo mozzafiato dell’età acerba.


Les pires – regia: Lise Akoka e Romane Gueret; sceneggiatura: Lise Akoka, Romane Gueret, Elenore Gurrey; fotografia: Eric Dumont; montaggio: Albertine Lastera; interpreti: Angélique Gernez, Carima Amarouche, Dominique Frot, Esther Archambault, François Creton, Johan Heldenbergh, Loïc Pech, Mallory Wanecques, Matthias Jacquin, Mélina Vanderplancke, Timéo Mahaut; produzione: Les Films Velvet, France 3 Cinema; Origine: Francia, 2022; Durata: 99′.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *