Primo lungometraggio della regista e produttrice Marta Mateus, Fogo do Vento è un’opera a metà strada tra fiction e documentario. Girato dentro una vigna, all’inizio vediamo il tempo della vendemmia e poi da subito spicca tra gli altri personaggi (in realtà persone reali che interpretano se stessi), una ragazza di nome Soraia che si taglia e il sangue si mischia al vino. Sullo sfondo del bel paesaggio mentre in alto sulle querce il tempo si dilata, il film è stato costruito quasi fosse una serie di diapositive, ognuna delle quali contiene un ricordo di qualche personaggio.
L’idillio della vigna dove le persone si sentono al sicuro, viene però interrotto da un toro nero che appare e scompare. Inizia una lunga notte durante la quale prende parola anche la natura – in Fogo do Vento si mettono in comune pane e vino, dolori e amori, guerra e pace. Il vento di fuoco, portatore di ondate di calore, brucia.
“Chiedevamo aiuto ai nostri morti, ai ricordi, alla storia, per domare la bestia e liberarci, celebrando la vita.” Questa frase sembra essere l’insegnamento del film. E ci piace immaginare che il cinema abbia anche il dono della stregoneria, aspetto sul quale Marta Mateus ha giocato in questa sua intrigante opera di debutto.
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Con Qing chun (Ku) [Youth (Hard Times)], WANG Bing è tornano a Locarno per presentare il secondo capitolo della sua trilogia sul lavoro nero in Cina, dopo Youth (Spring) del 2023.
In questo documentario troviamo le storie individuali e collettive dei laboratori tessili di Zhili, sempre più drammatiche con il passare delle stagioni. Dall’alto di un passaggio, degli operai guardano il loro capo picchiare un fornitore. In un altro laboratorio, il capo fugge con il denaro della cassa. Gli operai sono soli, derubati del frutto del loro lavoro. Dopo dure trattative, tornano a casa per festeggiare il nuovo anno, l’unica settimana di vacanza loro concessa.
I giovani cinesi lavorano duramente per vivere. I salari sono bassissimi, le giornate interminabili e il tempo per riposarsi quasi nullo. Dovendo dedicare tutta la giornata al lavoro, ci rendiamo conto come il loro unico scopo sia solo fare più soldi possibili.
Grazie a WANG Bing, scopriamo che i famosi vestiti a basso costo della fast fashion, non sono fatti in grandi fabbriche cinesi, ma in atelier piccolissimi dotati di un paio di macchine da cucire e di un personale dove spesso ritroviamo molti minorenni. Sono retribuiti a sacchi, o al kg, e alle volte qualche coraggioso prova a contrattare il prezzo con i capi, per farsi pagare magari uno ¥ in più anziché 3.
Vediamo così come la Cina di oggi evolva in fretta anche nelle interazioni sociali di questi lavoratori. E vediamo come questi giovani non conoscano alcuna vita sociale, perché sono sempre costretti al lavoro. Spesso vivono ammassati in un piccolo appartamento sopra la sartoria, con letti a castello senza materassi, dove la cucina, il bucato e tutto resto viene fatto nell’unico stanzone dell’appartamento.
Qing chun (Ku) ci racconta di molti casi, come per esempio quello di un dipendente che ha perso il libretto della paga e quindi il capo non vuole pagarlo. Oppure di dei dipendenti finiti alla polizia per un interrogatorio, o ancora la storia di un capo che scappa senza pagare i suoi debiti. Cosa accade? La polizia arriva, controlla le generalità delle persone (carta d’identità e numero di telefono), senza preoccuparsi minimamente del fatto che lavorino come schiavi. La soluzione per pagare i debiti, la trovano infine rivendendo le macchine da cucire dell’atelier – questa la cruda morale.
Come salvarsi da questa terribile situazione? Un modo ci sarebbe, molto difficile e dispendioso: ci sono dei genitori che si tolgono letteralmente il pane di bocca per permettere ai figli di frequentare una scuola di commercio o altro, in modo da poter aspirare in futuro ad un lavoro migliore.
L’opera di WANG Bing è un documentario quasi reiterativo sul suo argomento ma dal passo sostenuto e mai noioso, che racconta storie di sfruttamento e di riscatto. L’occhio del regista cinese è inquieto e riesce a cogliere tutte le sfumature di un mondo assolutamente complesso, nel quale il passaggio dai valori perduti del passato alla totale assenza di oggi produce un nuovo tipo di povertà: morale, oltre che materiale.
Si tratta di una bella operazione antropologica quella qui affabulata nel documentario di WANG, che ci mostra l’organizzazione sociale cinese, in questi atelier di sartoria-dormitorio, dove i padroni mettono quattro macchine da cucire in un posto abbandonato e sporco, ed ecco sorgere lì una fabbrica di vestiario. Sono impianti stagionali, che producono al kg e dove i giorni di riposo non sono contemplati e in cui assistiamo ad un peggioramento della condizione lavorativa di anno in anno. Che produce, come si accennava, un nuovo terribile tipo di povertà. Morale, oltre che materiale.
Tra documentazione sistematica e silenziosa denuncia, un film questo Qing chun (Ku), a nostro avviso, veramente perfetto per il pubblico del Festival di Locarno.