Conosciuta in precedenza per i suoi molti corti e mediometraggi, con Green Line Sylvie Ballyot ha portato a Locarno il suo debutto nel lungometraggio. La regista ha invitato Fida Bizri, cresciuta a Beirut negli anni Ottanta durante la guerra civile del Libano (1975-1990), a rivisitare il proprio passato e ad affrontare dei miliziani, grazie a statuine e plastici in miniatura, mettendo a confronto la propria visione di bambina spaventata con la loro che si consideravano dei protettori.
Le due donne avevano già scritto insieme nel 2012 il cortometraggio Moi tout seul; perciò, è stato chiesto loro come mai la scelta di fare insieme ora un lungometraggio.
Sylvie Ballyot: Ho scritto una fiction e, senza fondi, ho iniziato a fare un film con delle miniature, perché era quanto avevo a disposizione. Dopo qualche anno, abbiamo rimesso insieme quello che era già scritto. Avevo raccontato la storia vissuta da Fida e lei ha rielaborato quanto avevo fatto. Prima era un’animazione, e poi è diventato un film con i dialoghi. Tramite questo processo creativo, dalle figurine siamo riuscite a “liberare” la gente di Beirut, dando loro la parola.
Anche se ci sono “Green Line” in tutto il mondo, il titolo del film viene da quella di Beirut, che separava l’est (lato cristiano) dall’ovest (lato musulmano). Ovviamente non potevamo non far riferimento al conflitto tra Palestina e Israele, dato che entrambe erano coinvolte nella storia del Libano e ancora oggi la gente sta soffrendo per questa situazione.
Fida Bizri: quando ho cominciato a vedere come si trasforma la memoria, ho capito che, pur se doloroso, era liberatorio cominciare a ricordare. Per me “Il mio paese è la guerra e la morte”, ma questo film mi ha aiutato a uscire da questa idea, anche grazie al fatto che c’era un’immagine di finzione e una realistica. Al principio, quando mi è stato proposto di parlare con persone che hanno partecipato alla guerra, avevo paura, ma poi ho deciso che faceva parte del processo terapeutico. Il tempo è stato nostro alleato e comunque ne avevamo bisogno di tanto per arrivare a realizzare il progetto.
Riguardo al montaggio, Sylvie Ballyot ha aggiunto: si tratta di un documentario girato a Beirut, e nel montaggio abbiamo inserito le animazioni, ma le molte cose belle non sono solo, a mio avviso, nel montaggio, ma anche nelle riprese fatte direttamente in loco. Fida non è, infatti, un personaggio di finzione, ma una persona reale che intervista altre persone. Inoltre, per mostrare sensazioni molto forti e impressionanti, le miniature non erano abbastanza, ma bisognava mostrare anche la violenza nella realtà, perciò, prima di girare, abbiamo visionato molti documenti sulla guerra, per inserirle e far vedere di cosa si sta veramente parlando .
Green Line è la frontiera tra la linea della vita e quella della morte, che attraversa la città di Beirut dividendola tra est e ovest (cristiani e musulmani vivevano in due zone separate della città). Invitando Fida a ricordare la sua esperienza, Sylvie Ballyot ci immerge in una visione universale della guerra. Ma il suo non è un film simile agli altri, perché questo ci parla di accettazione più che del conflitto bellico. Fida, infatti, scava nelle cose non dette della guerra, e su quanto bisogna superare, perché pur non accettandole sono successe. Grazie alle figurine in animazione, la protagonista è riuscita a far parlare anche i combattenti, probabilmente perché sembrano miniature inoffensive; quindi, hanno parlato anche coloro che non lo avrebbero fatto facilmente. Durante una di queste animazioni, veniamo a scoprire come Fida non distingua i colori… mentre sua nonna gridava “Siamo nel rosso dell’inferno”, lei non capiva, perché il sangue lo vedeva marrone. Da piccola tendeva a banalizzare la morte, perché durante quella guerra infinita dubitava dell’importanza della vita.
Green Line mostra una guerra doppiamente dolorosa dato che anche se sembra finita, è come se non lo fosse mai veramente.
Le due autrici portano in scena una tematica estremamente forte, che coinvolge la nostra coscienza e regala una pagina di cinema e di linguaggio importante, passando dall’animazione al film.
Più si avanza nell’animazione e più si avanza anche nelle immagini, terribili, della guerra.
Quanto visto ci ha incollato allo schermo, perché le persone non vogliono la guerra, ma poi arriva comunque. La scelta creativa e insieme tecnica di usare le animazioni per le domande è stata essenziale e un valore aggiunto, per consentire agli interlocutori di poter rispondevano anche a difficili domande dirette e personali.
Documentario intimo e collettivo al tempo stesso, Green Line rappresenta il culmine dei lavori di Sylvie Ballyot che tramite un lungo il processo di ricerca è riuscita a far vedere oltre a quella green line, anche la frontiera che esiste tra l’individuo e la comunità.
Passando invece ad un altro film del Concorso internazionale, in Yeni şafak solarken (New Dawn Fades cioè “La sparizione della nuova alba”) Gürcan Keltek racconta la storia di un uomo che si è trovato di continuo a vivere dentro e fuori l’ospedale psichiatrico, come fosse intrappolato in sistema. Inoltre, Akın – questo il suo nome – non esce più dalla casa di famiglia, se non per occasionali visite ai monumenti religiosi di Istanbul, dove cerca rifugio in Dio.
Ho realizzato il mio film perché credo che la follia sia solo un’altra costruzione della nostra società ha spiegato il regista turco qui al suo secondo lungometraggio dopo Meteorlar (2017), vincitore di più di 20 premi in molteplici manifestazioni internazionali.
Keltek ha aggiunto che il suo film di finzione è basato sulla vita di una persona reale, su cui non poteva realizzare un documentario perché sarebbe stato troppo difficile per lui esporsi direttamente in pubblico davanti ad una telecamera, data la sua difficile situazione personale.
In Yeni şafak solarken ripercorriamo tre giorni di vita del protagonista, tra solitudine, un attacco di psicosi e un altro. In queste giornate, oltre alle vedute di Istanbul che riflettono il suo stato emotivo passando da monumenti religiosi idilliaci a strade caotiche nei quartieri affollati, vediamo come l’uomo si affidi all’esoterismo e al divagar con la mente, per cercare di stare meglio.
Man mano che perde il contatto con il proprio “vero io”, la mente comincia a spostarsi altrove. Realtà e immaginazione, allora, convivono insieme e ci portano a capire molti diversi aspetti interessanti di tale situazione: per esempio come la sanità mentale sia vista a livello politico e sociale e dipenda dal background culturale di chi la osserva; oppure come i trattamenti psichiatrici nelle strutture predisposte, alle volte, possano peggiorare la situazione.
Le riprese seguono sempre la figura di Akın; stiamo praticamente ripercorrendo ogni suo passo, le sue relazioni, i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Lo seguiamo quando attraversa Istanbul, vediamo la grande moschea di “Santa Sofia” vuota o piena di gente che prega, e ci rendiamo conto di come si sia evoluta la città a livello politico e religioso.
Inoltre, ci è sembrata molto interessante l’idea di dividere il film come se fossero dei capitoli di un diario mentre la scelta della colonna sonora, che accompagna il vagare senza meta del protagonista, rende l’atmosfera molto onirica. Pur senza entrare nello specifico della malattia mentale, il regista riesce così a comunicarci la testimonianza di chi cerca di sfuggire alla costruzione sociale della follia. E, alla fine, Yeni şafak solarken ci lascia con un mistero da svelare e una domanda senza risposta: “Ma cosa è appena successo?!”