Gena Rowlands (scomparsa il 15 agosto 2024 a 94 anni) è stata lo specchio della vita nel momento in cui tutti gli specchi cominciavano ad incrinarsi e la differenza tra una ruga, una piega o una smorfia del volto e una crepa sul vetro infranto non era più quasi percettibile; una frattura esposta non come una debolezza da compiangere o un’imperfezione da rimarginare, ma espressione di un testardo, intenso, entusiasmante attaccamento alla vita nelle sue più eccedenti e spericolate manifestazioni, l’impatto ravvicinato per lo sconvolgimento di ogni ruolo, definizione e maschera. La pazzia, l’amore, l’orgoglio, la forza, la fragilità, la sensualità….nei personaggi che ha creato e ha incarnato, pagando le conseguenze del suo status emotivo e psicologico tra la donna e l’attrice, ogni elemento- vissuto come forza primigenia transitata da una natura non indifferente- è esploso e ha fatto esplodere in un momento contemporaneo e sovrapposto le convenzioni del cinema e quelle della società, entrambi incapaci di sostenere una presenza cosi densa e permeante, in grado di strabordare i confini dell’inquadratura e i limiti di ogni inquadramento.
Spiazzava l’imprevedibile presentarsi con la dirompenza di un urlo di fronte alla minaccia del manicomio oppure con la soavità di una danza infantile in mezzo a una festa di bambini della sua doppia, tripla, quadrupla Mabel che possedeva dentro di sé le voci, i gesti, e gli sguardi saettanti e imploranti delle donne plagiate appartenute al suo tempo, al tempo passato e al tempo che verrà: Una moglie, titolo meno chirurgico, politico e fremente dell’originale A woman under the Influence, concepito e realizzato in un’unica e irrepetibile pratica creativa, artistica e produttiva assieme a John Cassavetes per il quale Gena era qualcosa di diverso e di altro rispetto ad una musa, una compagna o una collaboratrice. Leggendo l’imprescindibile libro di Ray Carney su Cassavetes, mirabilmente intitolatoUn’autobiografia postuma (Minimum Fax, 2014) perché ne ricostruisce la storia attraverso frammenti e dichiarazioni delle interviste rilasciate nell’arco della sua bruciante esistenza, emerge quanto la parte irrazionale, insofferente e passionale- caratteristiche che in Mabel vengono schiacciate contro il muro della brutale etero norma(lità) maschile- appartenessero più a John; e si evince come Gena se ne fosse fatta carico nel suo desiderio di rappresentare figure femminili che avessero quella profondità, quella grandezza, quel picco vertiginoso di affermazione e smarrimento, spesso negato alle donne ridotte ad essere co-partecipi e non protagoniste, relegate nell’alternativa di un secondo piano e non espanse nella centralità di un close up all’ ultimo respiro.
Questa osmosi trasversale al genere e alla sensibilità indica un altro stadio della collaborazione marito/moglie , sviluppata nella zona franca tra lo spazio privato e lo spazio performato dei set/casa, con gli amici che sono attori che interpretano amici e le madri ( Lady Rowlands, Katherine Cassavetes) che sono attrici che interpretano le madri, ha offerto a entrambi la possibilità di condividere la totale, immanente, costante immersione nel mare aperto dell’autenticità e dell’ambiguità. Basta solo un esempio, sempre tratto dal libro di Carney, per comprendere con quanto stupore e meraviglia John guardasse Gena e cercasse di comprenderne i più indecifrabili comportamenti e le azioni più inaspettate: quando Mabel torna a casa dopo il ricovero dal manicomio e trova la chiassosa folla di gente che il marito Nick ha invitato per una festa a sorpresa in suo onore, Cassavetes si aspettava che la prima persona che Mabel cercasse e salutasse fosse proprio Nick; ma Rowlands sceglie di esprimere quel particolare momento della donna, ancora spezzata dall’esperienza dell’internamento costrittivo, con il suo non accorgersi della presenza del marito che comunque l’aveva mandata via, nell’istituto psichiatrico, e poi non l’era neanche andata a riprendere. Raccontare la sensazione di non essere stata vista, attraverso il non vedere qualcuno che comunque ha voluto di nuovo costruire, in quel brulicare e in quel passaggio di sconosciuti di un maldestra celebrazione, una barriera, una dispersione, un altro smarrimento.
Cassavetes identifica il sentire e l’agire attoriale di Rowlands come poetico; l’ispirazione e la capacità di far vedere in maniera trasparente e commovente, senza la forzatura del narrare o dello spiegare, la distanza e insieme l’attaccamento di Mabel verso Nick.
A questo proposito ricordo quando vidi per la prima volta Una moglie, in tv, proprio durante un pomeriggio d’estate quando ancora la televisione pubblica trasmetteva un film come questo in orario diurno; avevo diciassette anni, avevo letto a grandi linee la trama e, come mi capitava di frequente, mi ero immaginato il film prima di vederlo, e nello specifico proprio come lei, Gena Rowlands, avrebbe potuto rendere la sequenza cruciale del post manicomio di Mabel…mi ero figurato un istrionismo da mattatrice, il climax, il clou di una performance che attendevo memorabile. Ed in effetti fu così, anche se ciò che trovai più incredibile fu proprio l’alternarsi di esternazioni furiose e alterate con sospensioni e ripiegamenti portati dagli occhi, dalla postura del corpo, dall’esitazione della voce. Stavo assistendo veramente a una grande, sconvolgente performance, rendendomi conto che si trattava di un’esperienza più complessa e composita della ricerca di una scena madre. Ed era poesia, sì, che Cassavetes aveva saputo vedere e lasciare manifestare sotto il suo sguardo.
Ed è la qualità probabilmente più incredibile della recitazione di Gena, il cui ruolo, almeno tra quelli con Cassavetes, che per alcuni aspetti potrebbe avvicinarsi di più alla sua indole personale è quello della Myrtle de La sera della prima: lo studio dall’interno di un’attrice di Broadway che non vuole limitarsi a replicare se stessa nel cliché di un precoce invecchiamento , ma si sbriglia dalle maniglie dell’identità, della formalità, dell’iconografia divistica nel trasformarsi in corpo medium di uno stato perduto: la giovinezza di una sua ammiratrice uccisa in un incidente stradale nel tentativo di stabilire un contatto più ravvicinato con la sua beniamina rispetto all’autografo pro forma di un volto tra la folla; ma non si tratta del disperato o spregiudicato vampirismo di una Norma Desmond o di una Eva Harrington post litteram, Myrtle attraversa i lividi, lo scoramento, l’ubriacatura del corpo a corpo con il proprio fantasma e riesce a liberarsene nell’atto creativo del palcoscenico.
Non c’è più nulla di rituale, di sacro, di ordinato, la quarta parete è stata abbattuta con il sipario chiuso e poi riaperto , il testo teatrale riformulato nella contingenza della relazione con il partner maschile (lo stesso Cassavetes, che fa il coprotagonista ed ex amante); nessun finale e nessun inizio ma il fluire della vita in un frammento che cambia in continuazione prospettive. E a Gena basta fare una pausa e sussurrare una parola per essere di nuovo poetica: “Che cosa manca secondo te al mio testo?”, le chiede l’anziana autrice di Second Woman, piece su una donna di mezza età in crisi. “La speranza”, risponde Myrtle. Non la speranza passiva e fatalista di un qualsivoglia credo, ma l’afflato vitale ed eccedente del sentirsi nel mondo, in un transito di sensibile ricezione di ogni segnale e nel contagio sanguigno e viscerale con i volti, i corpi, le voci degli altri. Così forse, oltre Cassavetes, la sua interpretazione più ispirata di speranza e poesia potrebbe essere quella di una terza M, la Marion di Un’altra donna, dove l’attitudine e la tensione per le vibrazioni sotto pelle e le sfumature bergmaniane di Woody Allen toccano come non mai corde struggenti, amare e tenere; tutto ciò per il tramite di Gena, austera professoressa di filosofia che sotto le ceneri delle proprie certezze, ritrova il calore di un sorriso e di un abbraccio, e ci lascia un ricordo che sono felice di aver vissuto pur nella consapevolezza, anzi nel dubbio, che sia qualcosa che ho perso: il bacio sotto la pioggia, chissà se la stessa del ritorno a casa di Mabel o dell’incidente dell’ammiratrice di Myrtle, tre lei e Gene Hackman, che voglio immaginare alter ego carnale e appassionato di un John Cassavetes già scomparso.
Senza tormento e rimpianto , questa volta. Per sempre meravigliato dalla bellezza di quel volto illuminato da un’ istante di pacificazione.