Piazza Grande
Un femme de notre temps (A Woman) di Jean Paul Civeyrac (Francia, 96’) valutazione: ***
Jean Paul Civeyrac ha affermato di non ricordare quando o come ha iniziato a scrivere la sceneggiatura di questo film, ma solo che ha preso vita nel momento in cui Sophie Marceau ha accettato di interpretare il ruolo di protagonista.
Catturata subito dal testo, perché dinamico e pieno d’energia, ha rappresentato per l’attrice una sfida in quanto lo ha visto come un racconto quasi teatrale in una parte mai fatta sinora al cinema.
Juliane, interpretata dalla Marceau è un commissario di polizia parigino dalla grande integrità morale che dopo la scoperta del tradimento del marito, prima con la sorella che si è suicidata e ora con una “nuova fiamma”, commetterà delle azioni impensabili. La sua rettitudine arriverà ad un punto di rottura che si trasformerà in paranoia, crisi psicologica, ossessione.
Civeyrac ci consegna, così, un thriller d’amore in parte non riuscito a causa di alcune sottotrame poco sviluppate o non utili alla resa del film, come ad esempio la “professione accessoria” di Julienne, quella di scrittrice di gialli di successo. Ciò nonostante Sophie Marceau ha dato il suo meglio dimostrandosi, come sempre, un’ottima attrice.
Dallo scorso anno al Festival esiste un nuovo premio: il Pardo d’Oro per la sezione “Locarno Kids”. Quest’anno è stato consegnato dai ragazzi del progetto “L’Atelier du Futur” alla regista indiana Gitanjali Rao per i suoi lavori di animazione dove porta sullo schermo la cultura indiana e le animazioni dipinte fotogramma per fotogramma.
Prima del lungometraggio Bombay Rose (2019), in Piazza Grande, è stato mostrato il lavoro che l’ha fatta conoscere al mondo del cinema. Un cortometraggio in 35mm senza dialoghi, Printed Rainbow, che ha vinto nel 2006 il “Prix decouverte kodak du meilleur courtmetrage” alla “Semaine de la Critique” di Cannes. Lo ha realizzato con pochissimi mezzi esterni – il portarlo a termine e poi distribuirlo ha richiesto un lavoro di tre lunghi anni.
– Printed Rainbow (India, 2006, 15’) valutazione: ****
Una storia di solitudine, dove una vecchietta entra in un mondo fantastico grazie a una collezione di scatole di fiammiferi molto colorate. L’unica sua compagnia è un gatto, lo “spionaggio” delle finestre di fronte e un vicino di casa, che scambia con lei le “doppie” di scatolette di cerini.
– Bombay Rose (India/Frania/UK/Qatar, 2019, 97’) valutazione: ***(*)
Gitanjali Rao ha detto che questo film parla per sé. Quando crea un lavoro d’animazione pensa sia al pubblico dei più piccoli sia a quello degli anziani, non dimenticando però anche le età intermedie e cosa più importante per lei “ è un lungometraggio che va guardato con il cuore non con la testa, affinché vi porti per 90 minuti nelle strade di Bombay”.
In Bombay Rose si narra di persone che, vivendo per strada, ci mostrano la vita, l’amore, l’esistenza e la sopravvivenza in quella città tentacolare che è la più popolosa di tutta l’India. E insieme si presentano l’emancipazione femminile, le differenza di classi sociali e la lotta tra le religioni.
Concorso Internazionale
Gigi e la legge di Alessandro Comodin (Italia/Francia/Belgio, 98’) valutazione: ***(*)
Il film segue le vicende di un vigile di provincia, Gigi, interpretato da Pier Luigi Mecchia, dalla routine sempre uguale e piuttosto banale. Quando non si rifugia nel verde di casa propria, lo si vede chiacchierare con i colleghi o con i paesani, in dialetto friulano, o fare qualche piccolo scherzo o battuta sulle colleghe donne.
Il film inizia con un suicidio sotto un treno su cui non si è mai indagato veramente e che mostra una società ormai immobile e sonnacchiosa davanti ai problemi che avrebbe da risolvere. Dopo il suicidio, il protagonista segue quasi ossessivamente il testimone, secondo lui sospetto, e inizia a confidarsi via radio con una nuova collega. Solo alla fine ci rivelerà finalmente qualcosa di intimo e toccante su se stesso e il mondo.
Al suo terzo lungometraggio Alessandro Comodin che con L’estate di Giacomo aveva vinto “Cineasti del presente” al Festival di Locarno del 2011, torna alle sue location preferite, sul Tagliamento e ritrae il suo inconcludente protagonista con tratti tra il documentaristico e il poetico, dedicando il film allo zio, un vigile che vive in una cittadina nel nord dell’Italia.
Cineasti del presente
Den Siste våren (Sister, What Grows Where Land is Sick?) di Franciska Eliassen (Norvegia, 80‘), valutazione: ***
Il film esplora la relazione tra due sorelle con un approccio piuttosto inconsueto e pieno di fantasticheria. Eira cerca di capire cosa stia succedendo alla sorella maggiore Vera, che vede le cose in modo diverso dagli altri. E per iniziare a comprenderla, legge di nascosto il suo diario.
La giovane Franciska Eliassen, alla sua opera prima, mette in risalto i miti ancestrali norvegesi, e porta sullo schermo la contrapposizione tra i problemi psichici di Vera e la “normalità” di Eira, esponendo così i segreti della sorella maggiore: le voci e la sua immaginazione inquieta.
Un film molto personale, recondito, ma non sempre accessibile al vasto pubblico.
Semaine de la critique
– The Hamlet Syndrome di Elwira Niewiera e Piotr Rosolowski (Polania/Germania, 85’), valutazione: ***(*)
Essere o non essere? Fare o non fare? Essere radicali o no? Scendere a compromessi o meno? La regista di un teatro ucraino, vuole portare in scena un Amleto moderno. Il film ritrae cinque giovani ucraini, che hanno vissuto la guerra del Donbass, conflitto iniziato nel 2014 e, come ben sappiano, va avanti, drammaticamente ancora oggi.
Il teatro diventa lo spazio delle confessioni dei loro traumi, dubbi, paure, sogni e speranze. Storie diverse a confronto: chi ha subito il trauma di aver perso i comilitoni in guerra o di essere stato catturato e torturato, chi non era accettato dalla famiglia per il proprio orientamento sessuale, e altri pensieri profondi e intimi dei protagonisti, emergono in una prova di teatro dopo l’altra. Lo spettacolo venne fatto, ma il documentario non finisce con un sipario che si chiude. Anzi, a fine film scopriamo, cosa stanno facendo i protagonisti per portare avanti il loro impegno e combattere: chi è al fronte come militare, chi è al confine per prestare aiuti umanitari e chi si occupa delle divise.
Il montaggio dinamico e l’intreccio di testimonianze e produzione scenica, creano delle immagini cinematografiche intime, in grado di suscitare delle riflessioni potenti. “Essere o non essere?” ha un nuovo significato, ora, vivendo in queste condizioni di guerra.
– Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna della Sala (Italia, 93’) valutazione:***
Viviamo in città dove spesso non conosciamo i nostri vicini di casa, i ghiacciai si sciolgono e i disastri ambientali avanzano,… esiste un altro modo di vivere? Questo documentario ci mostra uno stile di vita molto diverso. È girato a Bombay Beach, luogo nel deserto californiano e famosa meta di villeggiatura fino agli anni ’80, quando la salinità e l’inquinamento del lago Salton hanno reaggiunto livelli preoccupanti. Da allora è impossibile mangiare il pescato del lago e pericoloso farci il bagno. Oggigiorno Bombay Beach è quasi una “città fantasma”, popolata solo da case, roulotte e automobili abbandonate, rifiuti e polvere.
Nonostante ciò, causa degli affitti molto bassi, ci abitano delle persone di generazioni e classi sociali completamente diverse, da artisti a ex-detenuti o figli di famiglie benestanti cadute in disgrazia. Last Stop Before Chocolate Mountain ci mostra come questo gruppo eterogeneo di persone, abbia lasciato città, a volte enormi, per andare a vivere nel deserto. Malgrado il fatto che la narrazione risulti un po’ troppo tirata per le lunghe, si tratta di un lavoro degno di interesse e grazie ad alcune testimonianze, anche per così dire “terapeutico”.
Foto dalla Piazza di Locarno di Stéphanie-Linda Maserin