Piazza Grande
Celeberrima artista e musicista americana, Laurie Anderson è stata premiata con il “Ticino Moda Vision Award”, un premio che viene conferito a quanti nel campo dell’arte hanno avuto sempre la capacità di rinnovarsi e sperimentare cose nuove. A tale riguardo la Anderson con la sua attività è una maestra: i suoi lavori spaziano dalla musica, alle opere teatrali, alle installazioni artistiche nei musei. Nel ringraziare per il premio, si è definita un’artista che lavora con la lingua, perché quando va in scena si sente una “narratrice” di storie. In seconda serata è stato proiettato in Piazza Grande il suo film-concerto Home of the Brave del 1986.
Introducendolo, Laurie Anderson si è detta è contenta di condividere il “linguaggio contagioso” di questo concerto al “party” del Festival di Locarno, dove dopo la pandemia si è tornati tutti insieme a festeggiare la vita. E ha aggiunto come per lei il coronavirus abbia costituito un momento di ispirazione, perché trovarsi nella solitudine fa scoprire la natura della propria mente.
– Home of the Brave di Laurie Anderson (USA, 90’) valutazione: ***(*)
In questo concerto filmato, vediamo come l’artista usi le lingue, le scenografie, le installazioni artistiche (molto distinte l’una dall’altra) per tenere alta l’attenzione del pubblico e portarlo alla fine del concerto per lasciarci con la bella citazione di William S. Burroughs: “La lingua è un virus proveniente dallo spazio”.
– Semret di Caterina Mona (Svizzera, 85’) valutazione: ***(*)
Caterina Mona, regista ticinese al suo debutto ci mostra sul grande schermo con coraggio l’importanza dell’accoglienza. L’idea di questo film essenziale e senza fronzoli è nata a Zurigo, dove vive la regista, nel suo quartiere, un luogo con molti rifugiati eritrei. Così ha deciso di raccontare la storia di una donna eritrea, appunto Semret (Lula Mebrahtuun), che cerca di sentirsi integrata in Svizzera.
La protagonista, un’infermiera e madre single, ha rinnegato il suo passato e le sue origini, e nonostante i pregiudizi o le discriminazioni causate del colore della pelle, si sente cittadina della Svizzera. Nel film si intrecciano con leggerezza diverse lingue e culture, non è solo la storia di una donna e della sua dignità, ma racchiude nel microcosmo della donna tutte le testimonianze di quanti hanno dovuto abbandonare la loro terra, costretti ad emigrare all’estero.
Le riprese seguono la donna nella sua quotidianità e riflettendo sul problema dell’immigrazione emergono i pregiudizi, che i rifugiati si trovano a subire. Infatti, per paura di essi, Semret si è isolata dalla comunità e tiene la figlia quattordicenne lontano dagli altri eritrei, sperando che lei si senta una “vera” svizzera. Tuttavia obbligata dai desideri della figlia di socializzare, la porta controvoglia ad un concerto di musica africana e lì l’adolescente fa amicizia con un coetaneo che le fa scoprire il fascino delle proprie origini… Il resto lo lasciamo immaginare al lettore.
Madre e figlia, dunque, con esigenze e necessità diverse si ritrovano coinvolte e a contatto con altri emigrati a rivivere le emozioni interiori e il doloroso passato che hanno vissuto e stanno vivendo. Non sarà semplice trovare un equilibrio ma Semret ci invita alla speranza.
Per quasi tutto il film, Caterina Mona segue da vicino, quasi pedinandola con la macchina da presa, la sua protagonista veramente brava ad esprimere con le emozioni del volto il proprio personaggio, per consegnarci un racconto davvero profondo e per noi molto emozionante.
Concorso Internazionale
Balıqlara xütbə (Sermon to the Fish) di Hilal Baydarov (Azerbaigian/Messico/Svizzera/Turchia, 90’) valutazione: **(*)
Uno “studio” psicologico e metaforico sul senso della vita e della morte che si intrecciano, dopo il recente conflitto nel Nagorno-Karabakh che ha opposto sanguinosamente l’Azerbaigian all’Armenia.
Davud, (Orkhan Iskandarli) torna a casa dalla guerra, unico superstite del suo plotone, ma ad aspettarlo c’è solo la sorella (Rana Asgarova), che gli racconta come tutti gli abitanti nel villaggio siano morti per una epidemia, e lei sarà forse la prossima. Intorno, tra i fuochi dei cadaveri in fiamme e i pozzi petroliferi abbandonati che stanno uccidendo i pesci (da ciò il titolo del film), il nulla. Solo desolazione e odore di una imminente fine.
Inaugurando con questo film una prossima trilogia dedicata alla guerra, il regista azero Hilal Baydarov rappresenta bene come i conflitti armati facciano morire le persone dall’interno, e lo porta sullo schermo sia in modo figurativo che letterale. L’unico essere vivente, oltre ai protagonisti, è un cane trovato per strada, che a differenza degli umani non è in putrefazione, forse perché non sa cos’è la guerra.
Le riprese dei meravigliosi luoghi, deserto e montagne, dove si svolge la storia sono impressionanti ma Sermon to the Fish è molto statico, silenzioso e lento. Forse veramente troppo.
–Serviam – Ich will dienen (Serviam – I will serve) di Ruth Mader (Austria, 106’), valutazione: ***(*)
Un thriller, che si svolge in un collegio cattolico per sole ragazze abbienti, situato nelle vicinanze di Vienna. Una giovane Sorella (Maria Dragus), vuole rinnovare la sua fede religiosa, e lo fa con l’aiuto della sua allieva prediletta, la dodicenne Martha. Infatti, le due hanno un rapporto talmente stretto, che la suora dona a Martha una cintura punitiva, da indossare sotto l’uniforme per condividere la sofferenza di Cristo.
Nella scuola le ragazze hanno il divieto assoluto di frequentare il quarto e il quinto piano dell’edificio, ma la ragazzina, dopo essersi ferita con la cintura, viene nascosta proprio in uno di questi piani abbandonati. Fin qui, sembra tutto fuorché un thriller, ma le cose si complicano quando Alexandra, la compagna meno amata della scuola, trova la cintura e la sua compagna di stanza Sabina, inizia a sospettare del comportamento della suora.
La regista (e cosceneggiatrice) viennese che ha vissuto lei stessa in un Internato, vuole mettere in risalto in questo suo terzo lungometraggio di finzione come il credo religioso possa trasformarsi in estremo fanatismo, e come la protagonista – ottima la sua recitazione! – si mostri essere una donna che ha deciso di non piegarsi alle regole della società.
Cineasti del presente
Matadero (Slaughterhouse) di Santiago Fillol (Argentina/Spagna/Francia, 106’), valutazione: ***
La storia che ci narra Santiago Fillos è ispirata ad un’opera fondamentale della letteratura argentina, El matadero (1840) di Esteban Echeverría sinora mai portata al cinema.
Matadero comincia con Jared (Julio Perillon), un regista americano di serie B, che arriva a La Pampa negli anni Settanta per girare un kolossal basato sul racconto. L’uomo è talmente ossessionato dal suo lavoro, al punto di essere pronto a sacrificare tutto e tutti per portarlo a termine, tanto da mettere deliberatamente in pericolo la sua troupe e, quando il produttore lo lascia senza denaro, mente spudoratamente per cercare di portare avanti il progetto.
La narratrice è Vicenta, la coprotagonista interpretata da Manuela Villa, assistente devota di Jared che inizia parlando del boicottaggio della prémiere del film. A distanza di anni, però, nessuno lo ha mai visto a causa della morte di alcuni membri del cast durante le riprese mentre gli attori principali di quest’opera, danno al film una forte componente politica.
“Film nel film” esplicitamente ispirato a Fuga da Hollywood (1971) di Dennis Hopper o celebri imprese megalomani di registi come Coppola o Herzog, Matadero tiene sempre desta l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine, anche grazie ad alcune scene particolarmente forti e raccapriccianti. Purtroppo la conclusione del film non vuole (o non sa?) chiudere il cerchio della storia, lasciando incerte e non chiarite le ragioni del protagonista o quanto effettivamente sia accaduto veramente sul set.
– Fragments from Heaven di Adnane Baraka (Marocco/Francia, 84’) valutazione: ***
Un documentario marocchino, con ottime parti d’animazione, sulla vita dei berberi e sulla loro ricerca dei “frammenti di cielo” nel deserto, a partire da una suggestione leggendaria.
La storia è incentrata sulla figura di Mohamed, un nomade alla ricerca di detriti di meteorite nel deserto, perché convinto che possano cambiare il suo destino. Oltre a lui, anche uno scienziato di nome Abderrahmane sta cercando gli stessi frammenti, perché li sta studiando per capire le origini della vita e rispondere alle domande sul Big Bang.
Adnane Baraka crea dunque un dialogo piuttosto interessante tra fede e scienza lasciando però insoluto, malgrado il lungo viaggio nel deserto, l’interrogativo principale del film che non viene risolto. Anche se non sapremo mai se i protagonisti hanno trovato ciò che cercavano, abbiamo a che fare con un documentario affascinante che lascia molti spunti di riflessione.
In copertina Semret di Caterina Mona. Foto dalla Piazza di Locarno di Stéphanie-Linda Maserin.